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EVANGELO ED EVANGELIZZAZIONE. Perché Gesù parlava in parabole? Dietro la domanda, una questione attualissima e gravissima ...

CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL "DIRE DIO" OGGI. Una sua lezione sulle "sorprese del linguaggio di Gesù" - a c. di Federico La Sala

"La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l’uomo (...)
lunedì 3 settembre 2012
[...] quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta.
Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi. Il mondo occidentale sente
fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti (...)

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> CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL "DIRE DIO" OGGI. --- IL LINGUAGGIO E LA VERIATA’. Martini il comunicatore (di Giulio Giorello).

domenica 23 dicembre 2012

Il linguaggio e la verità. Martini il comunicatore

di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 23 dicembre 2012)

«In principio era la Parola, la Parola era presso Dio e la Parola era Dio», recita il Vangelo di Giovanni (1,1). E poco dopo: «In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini». Se dovessi indicare una laica chiave di lettura di questo celebre incipit evangelico, sceglierei il commento di Carlo Maria Martini dell’anno pastorale 1981-1982, ove non a caso viene meno la maiuscola: «Nella parola il nostro essere profondo si manifesta; la nostra libertà sprigiona le sue capacità operative; la nostra umanità va in cerca dell’umanità degli altri, cerca un contatto con loro, genera consensi, costruisce comunità umane, interviene sulle cose del mondo».

È uno splendido elogio del linguaggio come strumento evolutivo che consente il passaggio dall’individualità dell’io al noi e favorisce l’emergere delle più diverse forme del collettivo umano. Martini ricorre così a una caratterizzazione di Homo sapiens che mostra non poche linee di convergenza con la tradizione del libero pensiero da David Hume a Charles Darwin, da John Stuart Mill a Bertrand Russell: l’umanità è un mosaico di intelligenze, passioni e affetti «eccentrici e insoddisfatti», ed è proprio questa paradossale condizione che rende il linguaggio un elemento ineliminabile di incivilimento.

Certo, Martini ha in mente anzitutto «il primato della parola di Dio», che può sempre trascendere la gabbia dell’espressione puramente umana. Mi pare però significativo che proprio in questo contesto, così impregnato di fede evangelica, Martini non insista tanto su temi escatologici come l’immortalità delle anime o la resurrezione dei corpi, bensì sottolinei che è la parola - e solo essa - che «supera e salva ciò che muore»; anche se l’intero Universo giungesse al punto di «spegnersi». Per questo Dio ha bisogno degli uomini: la sua parola «non cessa di essere una realtà storica» e appunto la sua efficacia si manifesta nell’interpretare e salvare la vicenda della libertà umana, che va valutata «con le sue aspirazioni, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale».

Appunto per questa ragione la parola illumina le più diverse situazioni secondo modalità non disgiunte dal contesto culturale, sociale e storico. Scriveva Martini in un biennio difficile come il 1981-1982 che «davanti a urgenti interpellanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle nuove circostanze in cui viveva la famiglia, dall’inquieta condizione dei giovani e delle donne», il silenzio impacciato dei timidi e la carenza di linguaggio sono già delle colpe. Il sintomo più grave della malattia provocata dall’incoerenza fra quel che si professa e quel che si è, fra il dover essere e l’esistente di fatto, è la scissione tra «testimonianza e opere». D’altra parte, solo il linguaggio è in grado di colmare lo scarto tra «il mondo misterioso della fede» e «le contraddizioni della civiltà industriale».

La nostra è l’epoca della competenza tecnico-scientifica e Martini si è sempre dimostrato consapevole della forza che si sprigiona dalle idee non meno che dai grandi apparati della ricerca, senza troppe distinzioni tra ricerca pura e applicata, perché la linea di demarcazione tra l’una e l’altra cambia con la costellazione dei successi nella nostra comprensione della realtà.

Nel 1982-1983 Martini osservava «che l’uomo ha compiuto e va compiendo importanti conquiste nel dominio della natura, nella cura della salute, nella promozione della dignità personale, nell’organizzazione della vita sociale». Ma già nell’anno pastorale precedente metteva in guardia che l’incremento delle conoscenze scientifiche e lo sviluppo delle applicazioni tecniche spingono l’umanità a sopravvalutare la sua potenza e a darsi a un’attività produttiva sempre più frenetica.

Il riferimento più ovvio, all’epoca, era ancora alla corsa agli armamenti e all’equilibrio del terrore, garantito - se così si può dire - da Usa e Urss. Ma i giudizi pronunciati in quelle circostanze avevano una portata più ampia di quanto la logica della situazione facesse sospettare. «Di fronte ai tanti casi di corruzione, al generale affievolimento del senso di responsabilità, alla crisi delle istituzioni democratiche, tante voci chiedono un risorgimento della coscienza morale».

La cronaca più recente ci fa sembrare ancor più vive affermazioni di questo genere. Comunque, tale «sfida» per Martini deve venire raccolta, decifrata e fatta evolvere «verso la coscienza del bisogno di un solido fondamento».

A questo punto non posso fare a meno di pensare a un poetico elogio del fondamento nel divino come questo, formulato nell’età dei Lumi:
-  «Chi ha dato il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio. Chi dà la forza di pensare all’uomo? Dio». Qualche ingenuo cattolico - non certo Martini - potrebbe stupirsi che queste righe siano state vergate dalla penna di François-Marie Arouet, detto Voltaire, che alla voce «Catechismo cinese» del suo Dizionario filosofico (1764, prima edizione anonima Ginevra, anche se l’indicazione formale è Londra) aveva affidato all’esotico principe Ku la descrizione di come quel fondamento sostenga mondo, vita e intelligenza.

Nonostante la rinascita di forme più o meno virulente di fondamentalismo (cui Martini ha sempre guardato con estrema severità), è difficile sottrarsi all’impressione che il mondo disincantato di oggi si sia ormai affrancato da opzioni deistiche cui dava ancora spazio l’illuminista Voltaire.

L’impresa scientifica non ci pare cattolica o protestante più di quanto non sia induista, buddhista o confuciana. Né abbiamo a che fare nella nostra realtà quotidiana con una morale civile che possa venire dedotta in modo univoco da questa o quella dogmatica religiosa: in tal caso ne soffrirebbe la nostra stessa apertura democratica. In altre parole, siamo lontani da quel pretendersi tutti «cattolici, anzi cattolicissimi» come ancora faceva Galileo Galilei; per non dire dell’omaggio mistico di un Keplero al Dio uno e trino che nelle forme geometriche rispecchia la propria essenza o della sottomissione di un Newton al «Signore del mondo» che colma con la sua insondabile benevolenza le lacune della legalità fisica.

Per Martini la struttura pluralistica di scienza e società non costituiva affatto una sconfitta della proposta cristiana ma un suo punto di forza, nella convinzione che nella rinuncia a qualsiasi imposizione riacquistasse senso persino quel «bisogno indistinto di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo» che intesse l’atto della preghiera.

Né mancava in Martini un franco riconoscimento del valore individuale della scelta: tale «avventura difficile e inebriante» richiede infatti che ci sia sempre un io che corre il rischio della decisione, «anche se vivo, decido, prego in una comunità di fratelli che mi sostiene, mi rianima e spiritualmente mi dilata». Certo, la libertà umana «è sempre tentata d’infedeltà», e cristianamente Martini vedeva qui anche la radice di disordine e prepotenza, che possono inquinare persino l’orazione al punto di farne «il tentativo di piegare la divina volontà alla nostra».

Ma laicamente sapeva pure che quella stessa «infedeltà» può diventare la molla dell’insofferenza al conformismo, che è il frutto della restaurazione di qualsiasi fondamentalismo - persino di un fondamentalismo scientista, che vede nelle conquiste tecnico-scientifiche lo strumento di un dominio assoluto da parte di un’élite di tecnocrati a spese dell’ambiente e dei singoli individui.

Mi sia lecito aggiungere che un siffatto «atteggiamento di orgoglioso e bruciante possesso» a mio parere vanificherebbe la stessa crescita della conoscenza, intesa non solo come ricerca di «verità» continuamente rivedibili e mai definitive, ma anche come condivisione linguistica tra la cerchia degli specialisti e il pubblico più ampio, capace di incrementare la critica e il dissenso, a loro volta intesi come stimoli a nuove e incessanti scoperte. È mia convinzione e speranza che su questo possano davvero convergere le parole degli uomini e quelle di Dio.


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