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EVANGELO ED EVANGELIZZAZIONE. Perché Gesù parlava in parabole? Dietro la domanda, una questione attualissima e gravissima ...

CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL "DIRE DIO" OGGI. Una sua lezione sulle "sorprese del linguaggio di Gesù" - a c. di Federico La Sala

"La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l’uomo (...)
lunedì 3 settembre 2012
[...] quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta.
Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi. Il mondo occidentale sente
fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti (...)

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> CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL "DIRE DIO" OGGI. --- Quel no alle cure, l’ultima lezione (di Franco Garelli)

sabato 1 settembre 2012

Quel no alle cure l’ultima lezione

di Franco Garelli (Il Messaggero, 01.09.2012)

Se n’è andato in punta di piedi, piegato dalla lunga malattia, ma anche nel commiato non ha mancato di inviarci un messaggio, nel suo stile fermo ma discreto: sì alle cure essenziali, ma no ad altri aiuti impropri, che possono rientrare nell’ambito dell’accanimento terapeutico. Così, con un ulteriore atto di consapevole coraggio, si è spento ieri il cardinale Carlo Maria Martini, una delle più grandi figure della chiesa contemporanea, che a lungo è stato un punto di riferimento etico e spirituale non solo nella società italiana ma in tutta la cattolicità. Insigne studioso dei testi sacri, già rettore (a Roma) prima dell’università Gregoriana e poi dell’Istituto biblico, venne fatto vescovo in modo inatteso da Giovanni Paolo II con destinazione Milano, la diocesi cattolica più popolata del mondo, sovente trampolino di lancio per il pontificato.

Così non è stato per il cardinal Martini, fors’anche per i molti anni vissuti da Papa Wojtyla sul soglio di Pietro; o per lo stato di salute ormai precario con cui si è presentato all’ultimo Conclave, in cui è stato eletto Benedetto XVI. Ma al di là di ciò che molti prefiguravano, resta il singolare modo in cui Martini ha saputo interpretare il suo ruolo di vescovo nella sua città, nella chiesa e nel mondo, coniugando insieme cultura biblica e presenza pastorale, attenzione ai vicini e interesse per i «lontani», fedeltà alla Chiesa e aperture ecumeniche.

Il suo stile di pastore è ben simboleggiato dai tre cuori incisi nel suo stemma episcopale, che richiamano l’universalità, la tensione escatologica, la concretezza. Si tratta di tre icone che curiosamente corrispondono anche ai luoghi in cui il cardinal Martini ha maggiormente vissuto o in cui più si è identificato.

In primis Gerusalemme, la città che per un biblista richiama le cose ultime, è il crocevia del mondo, il luogo di elezione dei propri studi; ma che per Martini è stata anche la terra scelta per «quel che resta del giorno», ove si è rifugiato dopo le dimissioni da vescovo di Milano, dopo l’impegno intenso nella città terrena. A chi gli chiedeva «perché a Gerusalemme?», Martini rispondeva di esservi spinto dallo Spirito Santo. «Sono ispirazioni che non hanno una ragione logica»; se non quelle della preghiera, del ritorno agli studi intensi, del bisogno di «intercedere per una pace difficile», dello stare in «una terra di frontiera (quella di Gesù), piena di tensioni sociali e religiose, ma anche di dialogo e di riconciliazione».

Roma, invece, è stata per Martini non soltanto il luogo della formazione religiosa e sacerdotale (nella Compagnia di Gesù), della sua alta specializzazione scientifica, del forte impulso dato al rinnovamento degli studi biblici; ma anche la città dell’appartenenza universale, che si alimentava dei colloqui col Papa, della partecipazione ai Sinodi dei vescovi, del confronto con esponenti di altre confessioni religiose, dell’incrocio con culture diverse.

Infine, Milano è stata il luogo della «concretezza», la città che ha misurato il suo impegno di pastore. Un confronto non facile ma assai stimolante, per un uomo di studio e attento ai valori dello spirito come Martini, chiamato a calarsi nella capitale della finanza, della produzione e della moda, dove anche il mondo cattolico riflette la ricchezza e l’efficienza dell’operosità meneghina. Sovente lo Spirito si serve degli opposti per far crescere le coscienze e armonizzare l’ambiente.

Quando si parla delle aperture del cardinal Martini a Milano, i più ricordano l’iniziativa della «cattedra dei non credenti», tesa a riconoscere che la tensione spirituale non ha patrie e confini e può abitare ogni matrice culturale. L’obiettivo era di abbattere gli steccati, aprire un nuovo dialogo nelle città, da parte di un episcopato che sente prossimi non soltanto i «vicini» (il piccolo o grande gregge dei credenti) ma anche chi la pensa diversamente, quel mondo laico o non credente spesso in conflitto con la Chiesa.

Ma i tratti innovativi dell’episcopato Martini vanno ben oltre i momenti di dialogo con i «lontani». Basta ricordare le omelie che ogni anno il cardinale pronunciava a Sant’Ambrogio, veri e propri esercizi di discernimento, per la loro capacità di leggere i segni dei tempi, di penetrare in profondità gli eventi, di cogliere gli ammonimenti di Dio nella storia. Ciò che molti uomini di chiesa auspicano, ma non sono in grado (o non hanno il coraggio) di fare, era ricorrente in un pastore che aveva il gusto della parresia proprio nelle situazioni scomode.

Come quando ha affrontato il tema «terrorismo, guerra e pace», riflettendo sull’attentato dell’11 settembre 2001; o quando - con riferimento alla stagione di tangentopoli e dintorni - ha ricordato alla chiesa che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare»; o ancora, quando di fronte ad una chiesa che parla sovente di relativismo etico ha ricordato che c’è anche un «relativismo cristiano», che è «il leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata». Per accennare soltanto agli inviti che rivolgeva ai milanesi a impegnarsi in campo civico e politico, per superare le crisi del malgoverno, pur ammonendo che occorre «andar oltre», perché anche la politica deve misurarsi con le categorie del «servizio», della giustizia, della conversione.

Tra i molti ricordi, non possiamo dimenticare la capacità del card. Martini di rapportarsi ai giovani, anzitutto con l’ascolto e poi con la Parola, come avveniva nella lectio divina che si celebrava regolarmente nel duomo di Milano; o i moltissimi libri di spiritualità che egli ha scritto e commentato, anche utilizzando un linguaggio semplice e immediato, con l’intento di rispondere alle esigenze di molti: perché, come diceva il cardinale, «oltre ai cristiani della linfa, vi sono quelli del tronco, della corteccia e infine quelli che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero».

Infine, non poteva mancare l’accenno al grande sogno coltivato dal cardinal Martini circa dieci anni or sono, quando dopo il Giubileo del 2000 ha gettato un ampio sguardo sulla sua lunga esperienza nella chiesa universale: l’esigenza di un nuovo Concilio ecumenico, che spinga tutti i vescovi a sentirsi più responsabili nel governo della Chiesa, e capaci di affrontare le molte sfide etiche e religiose che la modernità porta con sé. L’invito dunque ad osare di più, per essere anche oggi fedeli alla «Parola».


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