di Antonio Gnoli (la Repubblica, 9 luglio 2011)
Era negli intenti del Cardinal Ravasi - con la mostra che si è aperta questa settimana in Vaticano - rilanciare quel dialogo tra arte e fede che in un passato, ormai remoto, ha offerto grandi capolavori e una fioritura di arte sacra di inarrivabile livello. Qualche perplessità, tuttavia, suscita l’iniziativa. E non solo per la constatazione desolante di che cosa abbia significato per la Chiesa l’arte negli ultimi secoli - tra orrendi edifici, terrificanti dipinti e raccapriccianti sculture (l’ultima delle quali un controverso omaggio a Giovanni Paolo II) - ma soprattutto per il venir meno del linguaggio con cui tutto questo dovrebbe esprimersi. In altre parole che idea di bellezza ha la Chiesa e in quale direzione va l’arte contemporanea, chiamata da Ravasi ad assolvere a un compito di testimonianza?
È un problema non irrilevante, per chi adotta la fede come criterio, osservare il profondo relativismo delle nuove tendenze, le quali sempre meno sono interessate alla bellezza (il cui ripudio è discusso da Roger Scruton in un libro appena edito da V&P) e sempre più al mercato.
L’arte del passato è stata grande perché grande fu il potere della Chiesa. Potente la committenza dei papi, fecondo il dialogo con gli artisti, e indiscutibile la tradizione. Niente di tutto questo è rimasto. E neppure un miracolo, crediamo, potrebbe far tornare ciò che è definitivamente sparito.