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LA SCUOLA, IL WEB, E LA LEZIONE DI KANT. "SAPERE AUDE!": IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E L’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ

IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTÀ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITÀ, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali per riflettere: testi di Gianni Rodari, Immanuel Kant, Emilio Garroni, Roberto Casati, e Armando Massarenti - a c. di Federico La Sala

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Da Emilio Garroni, una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
mercoledì 6 aprile 2011
[...] un medico, un giudice, o un
uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche,
giuridiche o politiche, al punto da poter diventare
egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché
manca di capacità naturale di giudizio (sebbene non
manchi d’intelletto), ed egli può sì intendere l’universale
in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto
sia subordinato ad esso, o anche per il fatto che (...)

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> IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. --- “Per cambiare il mondo è meglio essere mancini o zoppi” (Michel Serres, Il mancino zoppo))

domenica 8 maggio 2016

Come inventare il futuro nel tempo della società dolce

di Francesca Bolino (la Repubblica, 08.05.2016)

      • IL MANCINO ZOPPO di Michel Serres BOLLATI BORINGHIERI PAGG. 285, EURO 18)

Il “dolce” smantellerà il “duro”, quel vecchio mondo costruito con “mura, città, porti, asili di morte” che contenevano concentrazioni di donne, uomini, studenti, professori, liberi e condannati, sani e malati, cliniche, ospedali, libri, librerie.

Per Michel Serres il vecchio mondo è fatto di scatole dove non abbiamo mai smesso di cristallizzare i flussi, trasformando una folla sparsa in istituzioni, il cemento e la sabbia in muraglie, i giochi dei bambini in classi ordinate, l’amore in matrimonio... La società dolce assomiglierà invece a un vortice di flussi, senza mura.

Quando nel XVIII secolo dall’Accademia di Digione Rousseau lanciò un concorso per rispondere alla domanda «come fanno a volare gli uccelli?», le migliori teste d’Europa inviarono soluzioni geniali ma nessuna riuscì a dimostrare il volo. Il premio non fu assegnato: la meccanica dei solidi non poteva arrivare ad immaginare la scienza dei flussi e quindi comprendere la funzione delle turbolenze sotto le ali degli uccelli.

È quanto accade nella nostra società: bloccati a quella vecchia logica, siamo incapaci di pensare organizzazioni sociali fluide adatte all’età dolce. Per questo alla parola “sintesi” che designa qualcosa di stabile, il filosofo francese preferisce il termine “sirresi”, che indica una confluenza di flussi. Ed è questo paesaggio evolutivo che può far nascere un’umanità viva e mobile.

A 85 anni l’epistemologo Michel Serres scrive con Il mancino zoppo un saggio di contagiosa euforia, una ricostruzione del mondo dove l’energia creativa si sviluppa dalla volontà di uscire dalle regole. Qui il racconto dell’universo, a partire dal Big Bang, può essere narrato attraverso l’apparizione di fenomeni nuovi e imprevedibili, come un’esplosione di contingenze inventive.

Serres ci invita a immergerci nel dinamismo del mondo. Ci spinge a liberarci da ciò che è astratto, fisso, formattato: nell’età del dolce dobbiamo imparare ad abitare il possibile, inventare il futuro. Sono gli zoppi e i mancini a costruire il nuovo mondo, andando oltre le regole. Sono loro gli eroi di un’età dolce, riconfigurata dal digitale.


Michel Serres

Il bello della dissimmetria

«Il mancino zoppo» è un autoritratto del filosofo francese. La sua condizione fisica è l’emblema del suo pensiero

di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)

In filosofia, lo zoppo più famoso lo troviamo nel metà nano, metà storpio dello Zarathustra di Nietzsche che riversa «pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello». Ma già Edipo, «dai piedi gonfi», discende da uno zoppo, Labdaco, «il cui nome significa «zoppo», «asimmetrico», come le due gambette, una corta e una più lunga, della lettera greca lambda».

Il mancino zoppo di Michel Serres è più vicino a Edipo che al nano di Nietzsche: quintessenza dell’umanità nell’era iniziata con l’industrializzazione e oggi chiamata Antropocene.

Il titolo esprime la condizione di Serres, mancino zoppicante - «già mancino, ho rischiato l’emiplegia: zoppico dolcemente» -, ma descrive anche, in uno stile proteiforme, un racconto a più voci che richiama i suoi personaggi concettuali, da Pantope ad Arlecchino, da Ermes a Pollicina (Petite Poucette, Le Pommier 2012, tradotto con il titolo un po’ bizzarro Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri 2013). In una procedura “matematica” di integrazione che conduce a quel Grande Racconto al quale Serres si dedica dal 2001 e per il quale ha coniato il neologismo «ominescenza», che, diversamente da «ominizzazione», indica, in quanto incoativo, «l’inizio di una trasformazione (come luminescenza, adolescenza, arborescenza, ecc.)» (J-P. Dekiss, a cura di, Conversations avec Michel Serres, Jules Verne, la science et l’homme contemporain, Le Pommier 2003).

Lo strappo «ominescente» produce, tra il 1960 e il 1970, quelle «trasformazioni trans-storiche concernenti la crescita demografica, il corpo, il dolore, medicina e farmacia, sessualità, agricoltura, colonie, comunicazioni, efficacia tecno-scientifica mondiale, ecologia, cultura, morali, religioni... che riflettono le rivoluzioni contadine, il concilio Vaticano II e gli eventi del 1968». Uno strappo che il vecchio mondo non comprende ancora, cercando di «gestire il nuovo mondo, la nuova società, i nuovi uomini... con mezzi politici, economici, finanziari, culturali, pedagogici... tratti dal mondo scomparso» (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Riga 35, 2015).

Serres si impegna a fornire una filosofia del processo di «ominescenza». Il Grande Racconto inizia con l’evocazione del Big Bang e si conclude con un «elogio dell’attuale». Per intanto, nel Mancino zoppo fornisce un polifonico elogio del possibile e del contingente.

Serres ha attraversato discipline lontane fra loro - matematica, letteratura, fisica, estetica, diritto, storia, antropologia, informatica, sociologia, biochimica - per trarne ora una visione globale sintetica. Il Terzo-Istruito, eroe di un umanesimo sostanziato dal sapere scientifico, oltrepassa la divisione tra «istruiti incolti» e «colti ignoranti», tra scienze dure e scienze umane, alla ricerca di uno «spazio trascendentale di comunicazione».

Anche in questo libro Serres vede nell’informazione il tratto costitutivo di ogni differenziazione nell’universo, nella vita, nell’azione e nel pensiero degli uomini: «che cosa significa pensare se non, come minimo, effettuare queste quattro operazioni: ricevere, trasmettere, stoccare, trattare informazione?». Dal frammento di Eraclito «Il lampo governa l’Universo», alla definizione dell’informazione di Léon Brillouin come neghentropia, non vi è soluzione di continuità. Il «Grande Racconto delle cose, dei viventi e degli uomini» descrive la Puissance de la pensée (meno perspicuo il sottotitolo italiano: Dal metodo non nasce niente) con temi che rimbalzano dai sessantanove libri precedenti.

Ne illumino qualche frammento. Un’equazione unisce l’inventare e lo scoprire, «poiché tutto ciò che esiste, contingente, per emergere ha bisogno di una data quantità di rarità, cioè di novità». L’equazione pensiero-mondo è il leit-motiv del libro: «Lo sospettavate dall’inizio del libro, che fa pensare che il mondo pensi. Con l’enorme differenza che l’informazione e il pensiero, benché dello stesso genere, non appartengono alla stessa specie».

Il pensiero inventivo si iscrive nella dissimmetria provocata dal nascere e dal conoscere, produce quelle «emergenze» rintracciabili in ogni sistema complesso, molecolare, cellulare, neurale: «Quando Léon Brillouin definì l’informazione come un’eccezione rarissima all’entropia; quando Pierre Curie lanciò, per la prima volta, l’idea di asimmetria; quando Louis Pasteur meditò sui cristalli enantiomorfi; quando, prima di loro, Lucrezio descrisse il clinamen, l’inclinazione, la biforcazione, la nanoramificazione, la rottura di simmetria a livello degli elementi primi, come costitutivi delle cose, non schematizzavano, non riassumevano, non addolcivano forse delle antiche figure, il corpo di quei mitici avventurieri, sempre distanti dall’equilibrio, mancini, essi stessi biforcanti dalle loro membra?».

Serres si trasforma in una levatrice, in francese sage-femme (letteralmente «saggia-donna»), per «aiutare a partorire il mondo nuovo», come Socrate, sterile ma efficace, con la sua maieutica, per far germinare la saggezza. Il nuovo mondo si intravede lungo la faglia profonda prodotta dallo strappo «ominescente». È il mondo di Pantope, «colui che passa per tutti i luoghi», e ora di Pollicina, «discendente diretta di Hermes», che ha scoperto «il significato fisico dell’avverbio maintenant: «Cellulare - dice lei - che sta in mano, adesso [maintenant], e tengo in mano [tenant en main] il mondo».

Nel nostro tempo digitale, l’«alleanza qui proclamata delle scienze della vita e della Terra con il digitale ci allontana finalmente dalla guerra mondiale, nel senso del conflitto contro il mondo». Perché essa si realizzi sono urgenti una politica e una filosofia della storia, «che siano rispetto a quelle passate ciò che la meccanica dei fluidi è rispetto a quella dei solidi». E su di esse Serres promette di tornare al lavoro, seguendo il motto: «penser c’est anticiper».


“Per cambiare il mondo è meglio essere mancini o zoppi”

“L’innovazione non segue mai sentieri diritti arriva improvvisa come un ladro nella notte”

intervista di Alberto Mattioli (La Stampa, Tuttolibri, 07.05.2016)

L’unico dogma della laicissima cultura francese è «la méthode». Eppure, in Francia è una star riconosciuta il «philosophe» il cui metodo è quello di contestare il metodo. Michel Serres, 84 anni, professore di Storia della scienza alla Sorbona, poi a Stanford e in mezzo mondo, accademico di Francia dal ’90, ha venduto 200 mila copie con un saggio dal poco filosofico titolo di Petite Poucette, «Pollicino». Adesso torna in libreria con Le gaucher boiteux, Il mancino zoppo (Bollati Boringhieri, pp. 285, € 18). «La mente filosofica più fine che esista oggi in Francia» (parola di Umberto Eco, che peraltro era un suo grande amico) verrà a presentarlo al Salone del Libro, intervistato da Corrado Augias.

Professor Serres, perché un mancino e per di più zoppo?

«Perché l’innovazione arriva come un ladro nella notte, a sorpresa. Non c’è un metodo per ottenerla. Una ricetta ti permette di cucinare il piatto che vuoi, non di idearne uno nuovo. Inventore è chi trova quello che non cerca. Come Cristoforo Colombo, che scopre l’America cercando l’Asia. Per innovare, bisogna uscire dal cammino previsto, biforcare. Innovare significa biforcare. Il mio mancino zoppo è qualcuno che è “biforcato” nel corpo. E’ una metafora, perché non voglio dire che tutti gli innovatori siamo mancini o zoppi o tutti e due insieme. Però, per esempio, i miti dell’Antichità sono pieni di zoppi».

Un altro esempio che lei fa è quello, poco familiare a un lettore di filosofia in generale e in particolare a un lettore italiano, di Aristide Boucicaut.

«E’ l’inventore del “Bon Marché”, il primo grande magazzino moderno, il negozio dove c’è tutto. All’inizio, monsieur Boucicaut lavora per classificazione, con un metodo rigoroso. Sistema i suoi prodotti per generi merceologici, li ordina, li divide. Grande successo. Ma, dopo un anno o due, si accorge che il fatturato non cresce più. E allora, un bel giorno, rimescola tutti i prodotti, mette le patate accanto ai vestiti. E gli affari prosperano, perché la massaia, per trovare le patate, deve passare davanti ai vestiti e finisce per comprarseli, e viceversa. Come Colombo, trova quello che non cercava. Gli anglosassoni la chiamano “serendipity”, l’avvenimento fortuito e fortunato. E’ uno dei segreti dell’innovazione, anche se ovviamente non capita per caso, ma presuppone l’impegno e la ricerca».

Lei si paragona a una levatrice. Come Socrate.

«Con una differenza, però. Per Socrate, lo scopo del filosofo era di far nascere degli spiriti individuali, delle singole personalità. Io credo invece che il filosofo debba partorire un nuovo mondo. Pensare l’innovazione significa aiutare la nascita di un nuovo mondo. Quindi la metafora è la stessa di Socrate, il suo oggetto diverso».

Del suo libro, colpiscono, oltre ai concetti, il linguaggio: una serie di racconti, più che un trattato.

«Sono dentro una tradizione, che è quella francese ma anche italiana, diciamo latina. Il linguaggio filosofico anglosassone è molto formale, quello tedesco concettuale. Gli italiani, penso a Giambattista Vico, e i francesi come Montaigne, Voltaire, Diderot, hanno sempre privilegiato la narrazione, una riflessione concreta che si fa raccontando storie. Quindi non sono per nulla originale».

Colpisce il suo ottimismo. Oggi la nostra società tutto sembra fuorché fiduciosa...

«Ci saranno sempre dei nostalgici, gente che per la quale prima era meglio, a prescindere. Io però ho 84 anni e se mi guardo indietro constato di aver visto la Seconda guerra mondiale, la Shoah, Hiroshima e tutto il resto. Non ho nostalgia per un tempo in cui c’erano decine di migliaia di morti al giorno. Limitiamoci all’Europa. Da quando l’abbiamo unita, siamo in pace da 70 anni: non succedeva dai tempi della guerra di Troia. Per questo dico che viviamo in un’epoca “dolce”. Ci è sempre stato detto che la crisi economica genera la guerra: non mi sembra però che la Germania abbia invaso la Grecia. Cercate su Internet le principali cause di mortalità. Nonostante quel che scrivono i giornali, guerra e terrorismo sono fra le ultime. Gli incidenti d’auto e il tabacco fanno molti più morti. La realtà è che siamo pessimisti perché stiamo troppo bene».

La Francia di oggi sembra tuttavia piuttosto depressa...

«La Francia sembra sempre depressa. Ma non è un problema politico, è un problema culturale. Anzi, antropologico. Il francese non è gioioso, ama moltissimo lamentarsi. Certo, ci sono stati Rabelais o Diderot, ma la nostra cultura di regola non è allegra, forse perché eccessivamente basata sulla ragione. Nella cultura italiana, la dimensione emozionale è più forte. Forse per questo l’umore generale è più ottimista».

In questo quadro idilliaco stonano le ondate migratorie.

«E’ un problema, certo. Ma gestibile. Io sono nato nel sud-est della Francia. A un certo momento, sembrava che di colpo ci fossero più italiani che francesi. Poi ci fu la guerra civile e arrivarono in massa gli spagnoli. Oggi l’immigrazione pare più massiccia. Tuttavia, un fenomeno che abbiamo conosciuto è un fenomeno che possiamo controllare».

Fa un certo effetto vederla in divisa da accademico: non è un mondo un po’ demodé?

«Non credo. La marsina può sembrare vecchiotta, e lo spadino pure, ma tanto io non lo porto. Però l’Accademia è nata ed esiste soprattutto per compilare il Dizionario della lingua francese. Di solito ne esce una nuova edizione ogni vent’anni. E, in media, fra un’edizione e l’altra c’erano circa 4 o 5 mila parole di differenza. Nell’edizione che stiamo discutendo siamo già a 37 mila, fra parole nuove e parole che non si usano più. Mi sono informato: succede lo stesso anche nelle altre lingue, quindi non si tratta solo dell’invasione dell’inglese. Spariscono, per esempio, moltissime parole legate all’agricoltura o all’artigianato. E’ o non è un modello ridotto della crisi che attraversiamo, un effetto della globalizzazione? Per questo non credo che l’Accademia sia fuori moda».

Autori italiani: chi ama?

«Avevo due grandi amici e sono morti entrambi: Italo Calvino e Umberto Eco. Due tipi di intellettuali come si farebbe fatica a trovare in Francia, pieni di humour, ironici, amanti dello scherzo. Ricordo un viaggio con Eco. Un giornalista gli chiese: da quando è celebre? E lui: lo sono sempre stato, solo che la gente non lo sapeva».


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