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INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....

ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà - a c. di Federico La Sala

ANTONIO GRAMSCI (1924): "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo".
venerdì 21 dicembre 2012
[...] Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione piú violenta e
arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione.
Ha smontato qualche congegno dello Stato, piú per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere
che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi
entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia... [...]
IMMAGINARIO E (...)

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> C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci ---- "Augusto figlio di Dio". Canfora, seguendo Appiano, raffronta l’era di Augusto con l’epoca moderna, in particolare con la rivoluzione russa e la figura di Ottaviano con quella di Stalin che, dopo aver eliminato tutti i suoi possibili rivali e posto la mummia di Lenin nella piazza Rossa, si erge come successore della sua linea politica (

domenica 12 dicembre 2021

RECENSIONI

Luciano Canfora, Augusto figlio di Dio

di LIVIA RIGA *

      • Canfora, Luciano, Augusto figlio di Dio, Laterza, Roma-Bari 2015, 564 pp., € 24,00

Augusto, non occorre dirlo, è il personaggio chiave della politica romana antica e quindi anche della nostra storia. Più diplomatico che militare, dimostrò abilità di stratega che gli permisero di cogliere al volo l’occasione creatasi al seguito degli avvenimenti del 44 a.C., ponendosi come restitutor rei publicae relativamente alla pace e all’ordine per la città e, al contempo, come unica alternativa al precipitare degli eventi. Cavalcando l’onda emotiva dell’uccisione di Cesare, Ottaviano si insinua nella politica romana e in un’abile manovra ne diventa il cuore, pur senza abolire le massime cariche dello Stato.

In questo libro - che vede la luce a conclusione delle celebrazioni del secondo Bimillenario Augusteo durante le quali in tutt’Italia si sono succedute iniziative, aperture straordinarie e nuovi allestimenti - Luciano Canfora propone una lettura della politica augustea che, attraverso la storiografia antica e moderna, rivela l’attualità e la genialità programmatica di questo princeps in re publica.

Il primo passo di Ottaviano per insinuarsi nelle dinamiche politiche di Roma è la divinizzazione dello zio Cesare (padre adottivo). In questo venne aiutato da un evento prodigioso occorso nel luglio del 44 a.C. quando nei cieli di Roma apparve una cometa che rimase visibile per sette giorni; questo fenomeno fu interpretato dal popolo come manifestazione dell’anima di Cesare accolta tra gli dei immortali e determinò la decisione del senato di onorarlo come un dio, rendendo Ottaviano di fatto Divi filius.

Che questa divinizzazione sia un passaggio obbligato per l’ascesa politica di Ottaviano appare evidente - sebbene l’autore scelga di non soffermarsi su questo aspetto - anche da alcune opere edilizie intraprese negli ultimi anni del primo secolo a.C. Sul luogo ove il corpo di Cesare rimase esposto subito dopo l’assassinio, Ottaviano costruì un tempio dedicato al Divo Giulio a perenne ricordo di quell’azione ignominiosa che cambiò le sorti della storia romana (e che ancora oggi viene onorata da qualche nostalgico che vi porta dei fiori; cfr. F. Coarelli, Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 90-92); dedicò il tempio nel suo Foro a Marte Ultore, cioè il Vendicatore dei Cesaricidi, e alla statua del dio titolare e di Venere affiancò quella di Cesare divinizzato (cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 133- 134); inoltre nel Pantheon di Agrippa Cesare è ormai assurto allo stesso rango delle divinità canoniche (e Augusto stesso era probabilmente collocato nel pronao, pronto a fare anche lui, alla sua morte, il suo ingresso nell’Olimpo; cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 380- 381). Questa divinizzazione del padre insomma non è che una più o meno velata esaltazione in vita di se stesso.

A ricordo di quegli anni cruciali Augusto scrisse i Commentarii de vita sua e le Res gestae; quest’ultime, pervenuteci integralmente, erano il sacralizzante riepilogo dei propri successi da trasmettere a tutti i sudditi, da scrivere sul marmo per l’impiego monumentale, ispirandosi alla tradizione delle epigrafi regie del mondo persiano, egizio faraonico e tolemaico. Al contrario i Commentarii erano un genere letterario più tipicamente romano, redatti come un diario delle imprese, senza alcuna velleità storiografica ma pensati come materiale cronachistico alla base di eventuali historiae. Questo prezioso testo fu la fonte di diversi storici, ma non è purtroppo giunto fino a noi.

In Augusto figlio di Dio l’autore intende dimostrare che Appiano, lo scrittore e funzionario imperiale vissuto all’epoca degli Antonini (tra il 95 e il 160 d.C. ca.), nella sua Storia di Roma (Ῥωμαικά), attinse fedelmente ai commentari di Augusto traducendone pagine intere in greco.

In effetti, questo saggio di Luciano Canfora è un notevole studio bibliografico su tutte le fonti storiche e manoscritte che mira a far emergere la figura di Appiano sotto una nuova luce. Sono esaminate tutte le critiche, raffrontati tutti gli storici, antichi e moderni, per mostrare l’influenza di questo straordinario storico sulla cultura occidentale fino ai nostri giorni.

È ad esempio dimostrato che Appiano fu la principale fonte di Shakespeare per le sue tragedie, in particolare per il discorso davanti al cadavere di Cesare in cui Antonio, da consumato demagogo, capovolge una situazione per lui molto difficile. E ancora, Canfora mette in risalto come l’esaltazione di Spartaco da parte di Appiano sia stata favorevolmente letta da Marx in termini ‘comunistici’, definendolo un «vero rappresentante dell’antico proletariato» (p. 30). Infatti, nella gestione del bottino (κατ’ἰσομοιρίαν), nell’utilizzo delle armi e delle competenze che i patroni gli avevano fornito solo per il loro tornaconto, Spartaco rappresenta per Marx un modello che il moderno proletariato dovrà seguire nell’ottenere la libertà e conquistare il potere.

Appiano, tuttavia, ha goduto di scarso credito in epoca moderna (tra Cinquecento e Settecento), se non addirittura di discredito, fino a essere definito «plagiario» (fucus alienorum laborum, p. 71) da studiosi dell’Ottocento, quali Schweighauser, Xylander, Perizonio, Scaligero ecc. Questa accusa gli deriva dall’atteggiamento compilativo nell’uso delle sue fonti; egli è infatti un grande ordinatore della storia romana, rispetto alla quale scompone le precedenti hystoriae e i commentarii, per darne una nuova prospettiva geografica e, in alcuni casi, focalizzata su monografie di grandi personaggi. Per esempio nei suoi libri sulle Guerre civili, Appiano consulta tutti gli storici che hanno trattato quel periodo, compreso tra l’età dei Gracchi e la battaglia di Azio, utilizzando la loro documentazione e adottando spesso persino le loro osservazioni.

Per esempio, nei primi libri la fonte è rappresentata soprattutto dalle Historiae ab initio bellorum civilium di Anneo Seneca padre, che a sua volta si ispira alle Historiae di Asinio Pollione. Negli anni che vanno dall’omicidio di Cesare alle guerre con Antonio il riferimento principale sono invece proprio i Commentarii de vita sua di Ottaviano che, secondo Canfora, Appiano riporta con precisione, passando dalle sintesi dell’epoca precedente a un dettagliato e dilungato commento di tipo diaristico dell’età augustea.

Ma pur trascrivendo la cronaca narrata da Ottaviano, Appiano interviene nella narrazione facendo le proprie osservazioni; per esempio stigmatizza la scelta di Ottaviano di farsi chiamare Augusto, Σεβαστός (colui che deve essere adorato), che equivaleva a una divinizzazione addirittura da vivo. Inoltre Augusto, che già con la divinizzazione del padre Cesare era divenuto ‘figlio di Dio’, ha il demerito per l’egiziano Appiano di aver conquistato il regno d’Egitto, «che era il più duraturo e il più potente del lascito di Alessandro» (p. 108; Appiano, Proemio II, 21). E ancora, nell’Introduzione generale alla Storia di Roma egli, parlando del suicidio di Antonio dopo Azio, conclude con queste parole: «con quest’ultima guerra civile anche l’Egitto passò sotto i Romani e Roma tornò a essere una monarchia» (p. 61; Appiano, Guerre civili, 14, 60).

Appiano adopera qui il termine «monarchia» perché rifiuta il gioco di Ottaviano, che si era proposto come il difensore della repubblica, ma riconosce comunque a questo ordinamento politico il merito della raggiunta concordia e un lungo periodo di pace. Appiano, pertanto, non è un semplice trascrittore, ma aggiunge suoi commenti e valutazioni etico-politiche in modo originale, integrando anche all’occorrenza i Commentarii con altri testi non ‘di parte’. È il caso del Libro Siriaco, in cui si rifà a un’altra γραφή, la Storia siriana di Timagene di Alessandria, il cui punto di vista pone al centro Alessandro e la grande storia della Macedonia in chiave antiromana e a favore dei Parti.

Il libro di Canfora affronta in seguito la lettura che viene data di Ottaviano Augusto anche da altri storici come Seneca, Plutarco e Svetonio. Vengono descritti i rapporti di Ottaviano con Cicerone, il quale prima sarà favorevole ai cesaricidi Bruto e Cassio, poi diventerà protettore e ‘sponsor’ nell’ascesa di Ottaviano contro Antonio e, infine, con la costituzione del triunvirato di Ottaviano, Antonio e Lepido, cadrà nelle liste di proscrizione e verrà ucciso. Ben presto però Ottaviano lo recupererà come ‘grande patriota’ e come vate precursore della soluzione del princeps in re publica per conciliare forza, consenso e legalità. Augusto vuole, in effetti, controllare la storia costituendo un archivio delle sole lettere di Cicerone che avrebbero potuto essere strumentali al suo potere (e distruggendo le altre che gli erano ostili), e cerca a tal fine una riappacificazione con il figlio ed erede dell’oratore, concedendogli di condividere con lui il consolato nell’anno 30 a.C.

Nel volume è, poi, oggetto di analisi il “controllo culturale” del princeps, soprattutto attraverso Mecenate, sui poeti del suo tempo e sulle loro opere: basti pensare ai Fasti di Ovidio, l’Eneide di Virgilio, l’opera storica di Livio o alla lirica civile di Orazio. Eppure, anche se buona parte della letteratura nel periodo di Augusto si impegnò a celebrare la pace augustea simboleggiata dalla costruzione dell’Ara Pacis e sebbene il Senato avesse dato ordine di chiudere il tempio di Giano, le verità fatte valere da Augusto vennero negate dagli storici successivi tra cui Tacito, Svetonio e Plinio. Per esempio Tacito pone dubbi sulla morte di Irzio e Pansa e la pax augustea diventa per lui una «pace cruenta», con la repressione delle congiure e con la sconfitta sul suolo germanico di Lollio e Varo.

Augusto, durante il suo principato, aveva fatto di tutto per mettere a tacere la storiografia contraria (su questo argomento cfr. M. Lentano, La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Liberilibri, Macerata 2012, recensito per Syzetesis da F. Verde, https://goo.gl/YAG3Pd), tanto che Seneca padre, nato nel 60 a.C. ca., aveva prudentemente affidato la sua opera Historiae ab initio bellorum civilium alla sola circolazione nell’ambito familiare, temendo che la rivendicazione della veritas in un tempo di sistematica manipolazione storica avrebbe potuto nuocere alla sua vita. A titolo esemplificativo nelle Historie Seneca padre aveva descritto la crudeltà delle guerre civili e in particolare aveva rinfacciato a Silla l’invenzione delle proscrizioni, vero meccanismo di violenza legalizzata da parte dello Stato, con l’obiettivo di eliminare una parte delle classi dirigenti. Queste proscrizioni, condannate anche da Cesare, vennero invece riprese durante il triunvirato da Ottaviano, il quale fu inizialmente contrario ma poi, secondo Svetonio, «una volta iniziate le condusse con maggiore durezza degli altri due» (p. 469; Svetonio, Vita di Augusto, 27).

La storiografia dunque sconfigge la vulgata augustea e Appiano, al culmine della sua carriera sotto Marco Aurelio, commenta la mattanza delle proscrizioni triunvirali evidenziando la crudeltà di Ottaviano nel rifiuto della sepoltura delle vittime.

Il testo di Canfora si conclude con un’interessante riflessione sulla parabola politica augustea e sul fatto che Augusto, per affermarsi, abbia eliminato tutti gli avversari e posto l’immagine di sé come erede del Divus Iulius. La strategia culturale del princeps mirava a esaltare la continuità di un organismo politico di cui lui stesso era divenuto un abile manipolatore attraverso la realizzazione di una nuova visione dell’impero.

In questo Canfora raffronta l’era di Augusto con l’epoca moderna, in particolare con la rivoluzione russa e la figura di Ottaviano con quella di Stalin che, dopo aver eliminato tutti i suoi possibili rivali e posto la mummia di Lenin nella piazza Rossa, si erge come successore della sua linea politica.

Per quanto riguarda il titolo, è evidente che l’autore voglia implicitamente richiamare la tematica cristiana della filiazione divina di Cristo e dell’unicità del Dio (che, infatti, viene designato con l’iniziale maiuscola all’interno di tutto il testo). Tali riferimenti però appaiono del tutto estranei allo sviluppo della trattazione nel volume e in generale alla religiosità romana nell’epoca in esame. Inoltre, il titolo Augusto figlio di Dio potrebbe indurre nel lettore un’aspettativa tematica che verrebbe in parte disattesa.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, infatti, non è l’aspetto religioso dei culti nel periodo augusteo a essere l’oggetto privilegiato dell’esposizione di Canfora; a titolo di esempio, basti citare il fatto che l’autore sceglie di non soffermarsi sull’importante attività di rifondazione di alcuni culti antichi, portata avanti dal princeps subito dopo la battaglia di Azio.

Proprio perché il libro si configura come un’attenta analisi storiografica e filologica della vita di Ottaviano, forse sarebbe stato interessante mettere in risalto ciò che in quell’epoca fu fatto dagli eruditi su richiesta dello stesso Ottaviano per riportare in vita, in modo talvolta fantasioso, alcuni dei culti arcaici della città di Roma: uno studio antiquario e filologico (v. per esempio il caso dei Fratres arvales) atto a rafforzare l’immagine di Augusto come restitutor non solo dell’ordine politico ma anche dei doveri religiosi trascurati da almeno un secolo. (Sull’argomento si veda il nuovo allestimento del Chiostro Ludovisi inaugurato in occasione del Bimillenario Augusteo nel Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; cfr. inoltre J. Scheid, Gli arvali e il sito ad Deam Diam, in R. Friggeri-M. Magnani Cianetti- C. Caruso, a cura di, Terme di Diocleziano. Il chiostro piccolo della Certosa di Santa Maria degli Angeli, Electa, Milano 2014, pp. 49-59).

I n conclusione, pur scegliendo di non trattare alcuni aspetti della politica edilizia e religiosa di Ottaviano, l’opera Augusto figlio di Dio giunge a un’interessante e condivisibile riflessione sulla modernità della parabola politica augustea e sulla paradigmatica strategia rivoluzionaria del protagonista. Il libro di Luciano Canfora presenta, quindi, un’interessante chiave di lettura di questo affascinante e cruciale periodo della storia umana.

* Fonte: Syzetesis, Anno III - 2016 (Nuova Serie) Fascicolo 2


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