Stesi sul lettino nei Paesi dell’Islam
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, o5.10.2012)
Lo scorso 26 settembre, di fronte al numeroso corpo consolare insediato a Milano, Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera», sottolineava l’urgenza di «progredire nella pace e nel dialogo in una società multietnica». Per una coincidenza tanto casuale quanto indicativa dell’attualità di questi propositi, domani si terrà all’Università di Pavia, nella storica sede del Collegio Ghislieri, un seminario internazionale dal titolo «Geografie della psicoanalisi». La metafora rinvia al confronto e al dialogo tra le molte psicoanalisi operanti oggi nel mondo. Una prospettiva coraggiosa per un sapere nato all’inizio del Novecento, nell’ambito della minoranza ebraica viennese in cerca d’identità e integrazione.
Come spesso accade nella storia del pensiero scientifico, dallo scandaglio del particolare sono emersi paradigmi ritenuti universali. Il primato dell’Inconscio, il complesso di Edipo, il disagio della civiltà e la pulsione di morte, insieme alle regole per lo svolgimento della cura, hanno costituito, sotto la tutela dell’IPA, la Società internazionale di Psicoanalisi, un corpus teorico e clinico sostanzialmente stabile e omogeneo. Ma ora l’intensificarsi di relazioni multietniche induce a chiedersi: «Che cosa sopravvive della psicoanalisi, una volta messa a dimora in culture estranee e lontane?
Dalla rivista «Psiche», cui il seminario s’ispira, sono state anticipate alcune questioni. Ad esempio, si può trasferire la prassi del lettino in contesti, come quello islamico, caratterizzati dalla intransigente affermazione della superiorità maschile? Per lo psicoanalista Gehad Mazarweh dell’Università di Teheran, intervistato da Daniela Scotto di Fasano, la posizione frontale è preferibile soprattutto per la paziente donna, che ne trae una conferma della sua emancipazione. A una conclusione analoga giunge la psicoanalista Gohar Homayounpour osservando che, in Iran, un uomo non si sdraierebbe mai dinnanzi a un’analista donna.
Anche il fine della terapia è diverso: nel mondo occidentale si tratta di ricomporre un individuo frammentato rimettendolo in contatto con le parti rimosse della sua identità e con i rapporti sociali spezzati dall’affermazione narcisistica di sé. In società ad alto indice di collettività si chiede invece alla psicoanalisi di sostenere l’emancipazione dai condizionamenti familiari e ambientali, l’acquisizione di spazi di libertà personale.
Nei nuovi rapporti culturali e professionali Lorena Preta teme possano emergere atteggiamenti neocolonialisti, improntati a una presunta superiorità della cultura occidentale. Una tentazione evitabile privilegiando la psicoanalisi della domanda, cogliendo le provocazioni dell’alterità, sopportando l’ansia del dubbio e la fatica della ricerca, accettando la reciprocità e il cambiamento.
Non dimentichiamo che l’esilio impronta la storia e la teoria della psicoanalisi, fondata sul decentramento dell’Io e l’interpretazione dell’Inconscio. Il seminario si svolgerà attraverso colloqui tra psicoanalisti italiani e stranieri che studiano e lavorano in paesi islamici, mentre Livio Boni, dell’Università di Tolosa, affronterà il contatto con l’India, un subcontinente che suscita in noi contrastanti fantasie di «origine assoluta e irriducibile alterità».
Perché questa straordinaria avventura di traduzioni e ibridazioni reciproche s’inaugura a Pavia? Perché in quell’ateneo gli studi psicoanalitici sono sempre stati aperti alla storia e al confronto con le altre discipline, tra cui una intensa collaborazione con la psichiatria e l’antropologia.
In linea generale, dalla geografia della psicoanalisi ci si attende un contributo alla comprensione di chi, proveniente da paesi lontani, pur vivendo accanto a noi, ci rimane estraneo.
E, in modo specifico, una riflessione su tecniche e saperi minacciati, come sempre accade, dall’irrigidimento delle tradizioni e dal conservatorismo delle istituzioni.