Dewey e il Ministero del Disturbo: la rivoluzione darwiniana e il suo impatto filosofico
di ANDREA PARRAVICINI *
Le teorie scientifiche, si sa, hanno sempre avuto un ruolo importante per il pensiero filosofico, la cultura, il senso comune. Si pensi alla rivoluzione copernicana, alla relatività einsteiniana, alla fisica quantistica. La teoria dell’evoluzione di Darwin, che attualmente costituisce il nucleo teorico fondamentale del programma scientifico evoluzionistico, ha avuto in particolare un impatto enorme non solo sulla filosofia e sul senso comune, ma anche sul pensiero etico-sociale e politico.
Lo sapeva bene John Dewey (1859-1952), uno dei più grandi filosofi americani di tutti i tempi, il quale nei suoi oltre sei decenni di attività accademica colse, in anticipo sui tempi, il profondo e ampio significato che la teoria darwiniana ha avuto per il pensiero occidentale. Certamente colse questo significato in modo più lucido di molti filosofi contemporanei considerati oggi tra i maggiori viventi, come il celebre professore emerito di filosofia alla New York University Thomas Nagel, che nel suo ultimo libro Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa (Raffaello Cortina Editore, Milano 2015) discute della teoria dell’evoluzione e, nella foga di “dimostrarne” la falsità, non fa che fraintenderne malamente persino i concetti centrali. Dewey, inoltre, colse questo significato in maniera differente e più profonda rispetto a coloro che, seguendo la linea di pensiero di Herbert Spencer, sostengono ancora oggi interpretazioni politico-economiche del darwinismo inteso come una giustificazione “scientifica” di visioni conservatrici e neo-liberiste (si vedano, tra gli altri, gli scritti di Matt Ridley, Larry Arnhart o Paul Rubin) [1].
Nel primo di una collezione di saggi dal titolo The Influence of Darwin on Philosophy (H. Holt & Co., New York 1910), più di un secolo fa Dewey faceva notare come già il titolo del capolavoro di Darwin, L’origine delle specie (1859), contenendo i termini “origine” e “specie”, esprimesse una rivolta intellettuale contro i presupposti della filosofia della natura e della conoscenza che aveva regnato nel pensiero occidentale per duemila anni.
Da sempre la cultura occidentale considera tutto ciò che in natura e nel sapere umano è fisso, non cambia, o ha uno scopo finale, come qualcosa di superiore rispetto a ciò che cambia, diviene senza scopo o ha un’origine. Il cambiamento, il divenire cieco, sono sempre stati considerati dalla cultura occidentale come segni di difetto e di irrealtà. L’origine delle specie, scrive Dewey, “nel trattare le forme, che erano state considerate come tipi fissi e perfetti, come entità che hanno un’origine, cambiano e scompaiono, [...] ha introdotto un modo di pensare che alla fine era destinato a trasformare la logica della conoscenza, e dunque il modo di trattare la morale, la politica e la religione” (pp.1-2).
Per duemila anni, nota Dewey, cogliere le essenze, le forme immobili insite nella natura (come le cosiddette “specie”), i “fini” permanenti all’interno del perenne divenire delle cose del mondo, è stato lo scopo della conoscenza scientifica. Questa filosofia ha dominato in tutti i campi del sapere umano relativo alla natura, fino a che la scienza moderna, con Galilei e Cartesio, non ha eliminato i principi fissi e le cosiddette cause finali di aristotelica memoria dall’astronomia, dalla fisica, dalla chimica.
Con la nuova fisica galileiana (e in particolare il suo principio di inerzia) e la nascita della scienza moderna iniziò a imporsi quello che Jacques Monod, nel suo Il caso e la necessità (1970), chiamava il principio di oggettività della natura, considerato “la pietra angolare del metodo scientifico [...], vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza ‘vera’ mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di ‘progetto’” (tr. it. Mondadori - Oscar saggi, Milano 1996, p.33).
Tale principio escludeva dal territorio scientifico ogni tipo di spiegazione che facesse ricorso a fini, a menti intelligenti o a misteriose forme a priori sottostanti ai fenomeni, e li confinava in uno spazio soggettivo e “secondario”. Ma, come ben intuisce Dewey, questa rivoluzione di pensiero operata della scienza moderna, in realtà, per compiersi del tutto aveva bisogno ancora della rivoluzione darwiniana.
Infatti, nonostante la rivoluzione scientifica, a metà dell’Ottocento, fosse già compiuta in fisica, astronomia e chimica, non si può dire lo stesso per l’interpretazione dei fenomeni viventi. La scoperta e l’esame sempre più dettagliato dei meravigliosi adattamenti di piante e animali al loro ambiente, della complessità di certi organi come l’occhio, dello sviluppo articolato e funzionale dei piani corporei, e così via, rafforzarono l’idea, nelle scienze della vita, dell’esistenza di un disegno intelligente e di un fine trascendente che guidava la natura. Queste convinzioni sostenute dalla teologia naturale ancora ai tempi di Darwin ebbero l’effetto di bloccare l’accesso del genuino metodo scientifico al campo delle scienze umane e sociali. Afferma Dewey,
Darwin, dunque, ebbe il merito di operare una rivoluzione nei capisaldi dominanti del pensiero occidentale, eliminando dal mondo naturale la preminenza di ciò che si credeva fisso (come le specie) e la presenza di fini intelligenti e divini nel processo evolutivo e di sviluppo, affermando altresì l’importanza della differenza, della variazione cieca, del divenire, della contingenza, della mancanza di un piano preordinato nel processo evolutivo. Questo rivolgimento di valori nel pensiero filosofico, che coinvolge in pieno anche la concezione dell’essere umano e della sua mente, produce anche un profondo rivolgimento etico e politico, come Dewey coglie limpidamente. L’uomo ha davanti a sé la libertà di agire in un mondo il cui esito è ora aperto, incerto. L’effetto delle nostre azioni, lungi dall’essere già scritto e preordinato da una qualche Mente superiore o da una qualche meta finale già prefissata, è imprevedibile e non deciso. Darwin introduce in questo modo, con la sua concezione, un forte elemento di responsabilità etica dell’uomo rispetto alle sue azioni e al suo futuro, che ora è tutto da decidere e da pensare.
Si comprende dunque il motivo per cui, secondo Dewey, solo con Darwin quel metodo scientifico impostosi con Galilei e Cartesio può finalmente accedere anche alle scienze umane, alle scienze etiche, sociali e politiche. Alla luce del nuovo metodo darwiniano e del nuovo scenario del pensiero da esso dischiuso, anche la filosofia deve essere ricostruita radicalmente, diventando “un metodo per individuare e interpretare i conflitti più seri che accadono nella vita, e nello stesso tempo un metodo per progettare i modi adatti per affrontarli: un metodo di diagnosi e di prognosi morale e politica” (ivi, p.17).
Uno dei punti fondamentali dell’approccio di pensiero proposto da Dewey è l’idea che la filosofia debba adottare il metodo sperimentale caratteristico della scienza e applicarlo anche in campo etico, morale e politico. L’indagine scientifica ci insegna che la ricerca è qualcosa di continuo, provvisorio e mai definitivo, che non conosce conclusioni finali o arresti, e non riconosce alcun dogma o autorità esterni e superiori, che siano quelli della tradizione, della routine, o di essenze metafisiche. Nelle sue opere, Dewey sottolinea continuamente la capacità di auto-correzione della scienza, che è sempre pronta a rimettersi in discussione, senza considerare i risultati ottenuti come qualcosa di definitivo e concluso. Questo atteggiamento critico e antidogmatico, scrive Dewey in Reconstruction in Philosophy (1920), è una necessità vitale per la salute di una società davvero democratica e aperta. Egli sottolinea “l’importanza di uscire dal tracciato in cui la mano pesante della consuetudine tende a spingere ogni forma di attività umana, compresa l’indagine intellettuale e scientifica”, fino a proporre e a rivendicare addirittura l’esigenza di istituire “un Ministero del Disturbo, una fonte istituzionale di scompiglio, uno scardinatore del tran tran e del compiacimento” (J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, Roma 2008, p.10).
Secondo Dewey, scienza e democrazia non possono e non devono fare a meno l’una dell’altra e la filosofia ha il compito di incorporare e promuovere la posizione di questi nuovi valori, i quali tengano conto delle possibilità e delle esigenze introdotte dalla scienza. Una filosofia rinnovata e ricostruita “deve fare, per l’indagine della condizione umana e quindi della morale, ciò che i filosofi dei secoli scorsi hanno fatto per promuovere l’indagine scientifica sugli aspetti fisici e fisiologici della vita umana” (ivi, p. 13). La filosofia guarisce dal suo male presente soltanto se cessa di perpetuare quell’antico distacco dai problemi umani e sociali nella considerazione del problema di “una realtà suprema, ultima e vera”, che le ha fatto dimenticare la sua responsabilità etica e la sua possibile fecondità. In breve, “La filosofia riconquista se stessa quando cessa di essere un mezzo di trattare i problemi dei filosofi e diventa un metodo, coltivato da filosofi per trattare i problemi degli uomini” (J. Dewey, Intelligenza Creativa, La Nuova Italia, Firenze 1957, p. 105, enfasi mia).
In questo nuovo ruolo che Dewey assegna alla filosofia, la teoria darwiniana rappresenta sicuramente una rivoluzione teoretica cui la filosofia dovrebbe guardare con grande interesse e attenzione in tutti i suoi aspetti e le sue conseguenze. Ad esempio, l’idea dualistica prevalente nella filosofia moderna che, contrapponendo mondo e mente, materia e spirito, sostiene che l’io sia “straniero e pellegrino in questo mondo” e antitetico a esso, oggi è destituita di ogni fondamento scientifico alla luce della teoria dell’evoluzione. Come Dewey insisteva nel dire già un secolo fa, sarebbe fondamentale estendere la visione dell’evoluzione organica anche al modo in cui il soggetto dell’esperienza viene concepito. Una volta accettata la teoria dell’evoluzione biologica, il soggetto dell’esperienza diventa un animale in continuità con le altre forme organiche, a loro volta continue con i processi chimico-fisici che nei processi viventi sono organizzati in modo da costituire realmente le attività della vita con tutti i caratteri che li definiscono. E allo stesso modo, il pensiero e la conoscenza umani diventano qualcosa di paragonabile ai tratti evoluti in tutti gli altri organismi. “La riflessione è una risposta indiretta all’ambiente”, ma ha “la sua origine nel comportamento biologico adattativo e la sua funzione ultima nel suo aspetto cognitivo è un controllo prospettico sulle condizioni del suo ambiente” (ivi, p. 39n).
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