Uniti da educazione e spirito democratico
Un secolo fa, all’infuriare dei nazionalismi, l’America era l’unica nazione capace di proporre un nucleo unitario di valori fondati sul proprio internazionalismo
di John Dewey (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.12.2016)
Voglio citare solo due elementi del nazionalismo che il nostro sistema d’istruzione dovrebbe coltivare. Il primo è il fatto che la nazione americana è in sé complessa e composita. In senso stretto, è inter-razziale e internazionale nella sua essenza. È composta da una moltitudine di popoli di lingue diverse, eredi di tradizioni diverse, che coltivano diversi ideali di vita. Questo fatto è fondamentale per distinguere il nostro nazionalismo da quello di altri popoli.
Il nostro motto nazionale, “One from Many” (da molti, uno soltanto), scava in profondità e si estende ad ampio raggio. Rappresenta un concetto che certamente acuisce la difficoltà di ottenere una reale unità. Tuttavia arricchisce immensamente le potenzialità del risultato da raggiungere. A prescindere dalla forza con cui proclama il proprio americanismo, se una persona presuppone che un qualsiasi ceppo razziale - una qualsiasi delle culture che compongono la nazione, di vitalità più o meno accentuata nella propria regione, insediata sul nostro territorio in qualunque momento - rappresenti un modello a cui tutti gli altri ceppi e le altre culture si devono conformare, questa persona tradisce l’idea di un nazionalismo americano.
La nostra unità non può essere un unicum omogeneo come quello dei singoli stati europei da cui discende la nostra popolazione; la nostra dev’essere un’unità creata estrapolando e riassemblando in un tutto armonico gli elementi migliori e più caratteristici che ogni popolo e razza hanno da offrire.
Io noto che molti di quelli che vanno proclamando la necessità di un supremo e unitario americanismo dello spirito non fanno altro che difendere uno specifico codice o una tradizione cui si dà il caso siano legati: hanno una loro tradizione del cuore che vorrebbero imporre a tutti. Misurando così l’ambito dell’americanismo a partire da un singolo elemento che ne fa parte, essi stessi tradiscono lo spirito dell’America. Né l’Englandismo nè il New-Englandismo, né i puritani né i cavalieri, né tantomeno i teutoni o gli slavi rappresentano altro che una singola nota in una vasta sinfonia.
Il modo per affrontare il concetto d’identità-composta, in altre parole, è accoglierla, ma accoglierla nel senso di estrapolare il bene di ogni popolo per fare confluire il suo specifico contributo in un fondo comune di saggezza e di esperienza. Tutti questi lasciti e contributi messi insieme creano lo spirito nazionale dell’America. Il pericolo nasce quando ciascun elemento si isola e tenta di vivere nel proprio passato per poi tentare di imporsi su altri elementi, o quantomeno di preservarsi intatto, rifiutandosi di accettare ciò che le altre culture hanno da offrire per tramutarsi in americanismo autentico.
Ciò che giustamente si contesta nel concetto d’identità-composta è il trattino, diventato un elemento che divide un popolo dagli altri, e che impedisce in tal modo la formazione del nazionalismo americano. Termini come irlandese-americano o ebreo-americano o tedesco-americano sono falsi, perché sembrano affermare l’esistenza di un luogo già esistente chiamato America, cui l’altro elemento si va ad aggiungere. Il fatto è che il vero americano, il tipico americano, è intrinsecamente una persona-trattino. Questo non significa che sia in parte americano e che un qualche ingrediente straniero si sia poi aggiunto. Significa che, come ho detto, egli è internazionale e interrazziale nella sua essenza. Non è americano più polacco o tedesco. L’americano è intrinsecamente polacco-tedesco-inglese-francese-spagnolo-italiano-greco-irlandese-scandinavo-boemo-ebreo eccetera. Il punto è capire che il trattino connette invece di separare. E questo significa quantomeno che le nostre scuole pubbliche dovranno insegnare a ogni elemento a rispettare tutti gli altri, e impegnarsi per mettere in luce tutti i grandi contributi del passato di ogni ceppo della nostra composita aggregazione di popoli .
Auspicherei che l’insegnamento della storia americana nelle scuole sapesse tenere maggiormente conto delle grandi ondate migratorie che hanno continuato a plasmare la nostra terra per oltre tre secoli, e che ogni alunno fosse reso consapevole della varietà del nostro conglomerato.
Quando ogni alunno riconoscerà tutti gli elementi che sono confluiti nella nostra identità, pur continuando a custodire e a rispettare quelli provenienti dal proprio passato, saprà anche apprezzarli come fattori che contribuiscono a formare un tutto, più nobile e più bello delle sue singole parti.
In breve, se la nostra istruzione nazionale non saprà riconoscere nell’internazionalità il tratto caratteristico del nostro nazionalismo, gli sforzi convulsi per assicurare l’unità non faranno che alimentare l’inimicizia e la divisione. I nostri insegnanti ne sono consapevoli, molto più dei politici. Mentre troppo spesso i politici hanno promosso un concetto viziato d’identità-composta o di campanilismo per raccogliere voti, gli insegnanti hanno lavorato per trasmutare le convinzioni e i sentimenti, una volta divisi e contrapposti, in una cosa nuova - uno spirito nazionale inclusivo, non esclusivo, accogliente e non geloso. L’hanno fatto con il contatto personale, la relazione cooperativa, la condivisione di attività e di speranze comuni. L’insegnante che è stato attivo nel promuovere la lotta comune per l’emancipazione e l’illuminazione dei nativi americani, degli africani, degli ebrei, degli italiani, e forse di una ventina di altri popoli, non può concepire l’America che come una nazione con una storia e delle speranze ampie quanto quelle dell’umanità - i politici chiacchierino pure quanto vogliono.
Se la cultura sa vedere più lontano della politica
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.12.2016)
È impressionante vedere - nel testo pubblicato qui a fianco [SOPRA, fls], in uscita nella collana Quaderni della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - come esattamente un secolo fa il filosofo pragmatista e grande educatore John Dewey avesse le idee chiare su temi oggi di stretta attualità. Le grandi ondate migratorie dell’Europa di oggi pongono problemi, sociali e culturali, che Dewey affronta guardando allo sviluppo del sistema educativo come al fulcro di un processo di lungo periodo e individuando negli insegnanti, e non nei politici, dunque nella cultura, i soggetti più consapevoli dei processi in corso. Una cultura consapevole dei propri valori di fondo, come abbiamo ribadito più volte negli ultimi cinque anni dopo la pubblicazione del nostro Manifesto per la cultura, è il motore di ogni possibile sviluppo. Soprattutto se, come nel caso di Dewey, essa si nutre di uno spirito autenticamente democratico.
La democrazia alla Dewey ha peraltro molto a che vedere con il progetto culturale la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli inaugurerà il 13 dicembre con l’apertura della monumentale sede di via Pasubio, progettata da Jacques Herzog e Pierre de Meuron. «Una nuova sede iconica per una grande casa delle culture sociali», la definisce il presidente Carlo Feltrinelli; e il segretario generale Massimiliano Tarantino uno «Spazio di cittadinanza. Una piazza, contemporanea, meticcia, accessibile, utile» oltre che un luogo ospitale per i ricercatori che, in postazioni progettate per loro, vorranno mettere a frutto la straordinaria documentazione contenuta negli archivi.
Milano Porta Volta. Luogo dell’Utopia possibile è il titolo del volume che presenta il progetto. E chi se non proprio Dewey può guidarci con lucidità verso una Utopia concreta, a portata di chiunque, per realizzare una società di cittadini liberi ed eguali, secondo il sogno di Amartya Sen (ricordato da Salvatore Veca) di una libertà vera per tutti? Magari imparando anche dagli errori della storia e dalle Utopie sbagliate o mal realizzate, come la Rivoluzione russa, cui la fondazione dedicherà nel 2017 numerose iniziative per ricordarne il centenario. O meglio ancora dall’Illuminismo, pezzo forte degli archivi e degli studi promossi da sempre dalla fondazione. Ebbene, l’Utopia possibile di Dewey si identifica proprio nello stretto legame che egli istituisce tra democrazia e spazio pubblico.
Come ha ricordato il francofortese Axel Honneth, in Dewey la sfera politica, o pubblica, «non è, come nella Arendt o, sebbene in forme attenuate, in Habermas, il luogo dell’esercizio comunicativo della libertà, bensì il medium cognitivo, mediante il quale la società tenta di determinare, elaborare e risolvere i problemi insorgenti nella coordinazione dell’agire sociale». Dewey ha come modello una comunità di ricercatori scientifici sinceramente impegnati a risolvere un problema. Egli osserva che, nella scienza, l’intelligenza e la qualità delle soluzioni dei problemi emergenti sono direttamente collegati alla democraticità della ricerca, cioè alla possibilità da parte di tutte le persone coinvolte di scambiarsi informazioni e avanzare critiche e considerazioni in modo libero e aperto. Gli fa eco l’architetto Herzog: «Resto convinto che investire nella cultura e nell’istruzione sia fondamentale per creare e mantenere in vita una società aperta».