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EUROPA, EBRAISMO E PSICOANALISI: VA’ PENSIERO (G. VERDI, "NABUCCO" - NABUCODONOSOR). MEMORIA, CREATIVITA’ E INTERPRETAZIONE ....

FREUD, RICORDANDO-SI DI NAPOLI (E DEL SOGNO DI UNA NUOVA "POLIS"), COMINCIA A CAPIRE COSA C’E’ DIETRO LA SUA (E NON SOLO SUA) INFATUAZIONE PER ANNIBALE, PER IL "VENDICATORE". Una breve analisi della "dimenticanza di una parola latina" da parte di un giovane accademico - a c. di Federico La Sala

(...) Ho varie ragioni per attribuire valore a questa piccola analisi e sono grato a quel mio compagno di viaggio di allora per avermela concessa (...)
mercoledì 25 maggio 2011
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor. La locuzione latina, tradotta letteralmente, significa che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore. (Virgilio, Eneide, IV, 625). Imprecazione di Didone nel gettarsi sul rogo, perché abbandonata da Enea. Il vendicatore sarà poi Annibale, il terribile nemico di Roma che, a dodici anni, aveva giurato su gli altari patrii odio eterno contro i Romani (...) (Wikipedia).
[...] il soggetto ha lamentato che la generazione attuale del suo popolo (...)

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> FREUD --- I "Racconti analitici". Così Freud ha inventato il thriller dell’anima (di Melania Mazzucco)

mercoledì 4 gennaio 2012

Così Freud ha inventato il thriller dell’anima

Li leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere e alle loro angosce

Scritti con stile elegante parlavano non di mostri ma di gente perbene che si poteva anche incontrare nei salotti

Ecco i "Racconti analitici" del padre dell’inconscio che fondarono una nuova disciplina e un nuovo genere

di Melania Mazzucco (la Repubblica,03.01.2012)

Nel 1936 uno dei candidati al premio Nobel per la Letteratura, proposto da Romain Rolland, era un anziano psicoanalista viennese: Sigmund Freud. Era stato candidato dozzine di volte al Nobel per la Medicina, che con suo grande dispiacere gli fu sempre negato, perché il suo lavoro "non era basato su prove scientifiche". In suo sostegno erano stati sottoscritti pubblici appelli: tra i firmatari figurano i principali scrittori dell’epoca, da Alfred Döblin a Jakob Wassermann, da Knut Hamsun e Lytton Strachey fino a Thomas Mann. Questi, maliziosamente, firmò purché la candidatura di Freud fosse al Nobel per la Medicina. Con ciò, riconosceva che lo psicoanalista poteva rappresentare un rivale temibile. Il premio per la Letteratura del 1936 fu assegnato a Eugene O’Neill. E Freud rimase senza Nobel: la sua opera era considerata troppo romanzesca per essere scientifica, e troppo scientifica per essere letteraria.

Ripensavo a questa vicenda leggendo la dotta introduzione di Mario Lavagetto ai Racconti analitici di Freud, appena pubblicati da Einaudi nella collezione dei Millenni. Con la consueta acutezza Lavagetto - anch’egli, come Freud, uno scrittore anomalo, che ha regalato alla letteratura italiana, e non solo alla storia della critica, dei gioielli fin dai tempi della Gallina di Saba - affronta la questione centrale dell’opera del fondatore della psicanalisi. Che cosa sono davvero le Krankengeschichten di Freud? Qual è la loro natura? E come dobbiamo chiamarle? Storie cliniche? Casi clinici? Studi? Lavagetto le intitola racconti.

I primi - i quattro casi femminili di isteria - apparvero nel 1895. Erano il frutto eretico di un genere codificato che aveva già prodotto i suoi classici. Fra questi, la Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing (1886), la più straordinaria enciclopedia della devianza mai scritta, nella quale l’autore descriveva, col distacco di un entomologo, innumerevoli casi di zoofilia, coprofagia e via dicendo. Qualcosa di simile aveva fatto in Italia anche Cesare Lombroso, che aveva raccolto storie di perversione e follia tra i bassifondi della società: ma la formazione positivistica e deterministica gli impediva di riconoscere nei suoi casi comportamenti universali e perfino la comune umanità.

Freud scriveva per illustrare le sue nuove teorie. I suoi casi avevano uno scopo "dimostrativo". Divennero subito tutt’altro. Krafft-Ebing li stigmatizzò come "favole scientifiche". I lettori, in un certo senso, fecero lo stesso. Le "favole" - inizialmente rivolte al pubblico dei medici della psiche - attirarono l’attenzione dei profani. Erano scritte con stile elegante, chiaro. Parlavano non di mostri - come quelli di Krafft-Ebing e Lombroso - ma di gente perbene che tutti avrebbero potuto incontrare nei salotti. Le leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere. Le reazioni degli uni e degli altri costrinsero Freud a interrogarsi di continuo sui suoi metodi e a difendere e motivare le sue scelte, tanto che nei testi inserì una quantità di riflessioni "metaletterarie". Benché insistesse a sminuire le sue capacità artistiche e a prendere le distanze dalla letteratura, questa si affaccia spesso nella teoria psicanalitica - offrendole chiavi interpretative, archetipi, immagini, personaggi - e Freud non era ignaro delle sue doti.

Lui stesso si assimilava al romanziere: nell’Introduzione alla storia di Dora del 1905, esprimeva il timore che sarebbe stata vista dai lettori "non come un contributo alla psicopatologia della nevrosi ma come un roman à clef destinato al loro divertimento". Proprio come un romanziere riassumeva, censurava, montava e manipolava la sua materia. Era consapevole che - non potendo riferire il contenuto delle sedute così come si erano effettivamente svolte nel suo studio nel corso di settimane, mesi, a volte anni - la narrazione del caso diventava un’interpretazione e una costruzione: un’opera.

Ciò che costituiva una debolezza scientifica è anche la ragione del suo fascino. La lettura della storia dell’Uomo dei Lupi, il giovane russo che a quattro anni sognò sette lupi bianchi che lo fissavano accoccolati su un albero, restituisce ancora il piacere di quella che fu una delle più avvincenti avventure intellettuali del Novecento. I pazienti fobici, ossessivi, nevrotici di Freud, e il medico che ne raccoglie le angosce, le narra, le spiega e narrandole le guarisce, diventano i protagonisti di un’indagine sull’anima, l’infanzia, la sessualità, la vita - ciò che costituisce anche la materia della letteratura. Freud si paragonava a chi tenta di risolvere un puzzle, a un archeologo che riporta alla luce la città di Pompei, disseppellendo quanto la lava ha nascosto. In realtà usa una strategia narrativa simile a quella del coetaneo Conan Doyle: si tratta di trovare un colpevole che ha agito nell’ombra.

Lo psicoanalista svolge la funzione dell’investigatore. Il lettore viene preso nel meccanismo. Vuole sapere cosa è successo e perché. E Freud interroga, accumula indizi, esplora mondi sotterranei e inaccessibili (l’inconscio, il sogno), guida se stesso, il paziente e il lettore attraverso un labirinto di segni e alfabeti di lingue ignote (le strutture della psiche e il suo funzionamento) e infine consegna a sé e a noi la sua spiegazione. La forza catartica di queste storie resta immutata anche dopo che la teoria di Freud è diventata nozione comune, dopo cent’anni di discussioni e aggiustamenti, dopo che i costumi sessuali e la società sono profondamente mutati.

Quando Freud pubblicò i suoi racconti, doveva tranquillizzare il lettore, attenuare, smussare: il pubblico restava traumatizzato dalle rivelazioni sulla sessualità infantile, l’ambivalenza delle pulsioni, la libidine etc. Oggi la "verità" di Freud suona come la spiegazione di un giallo, che ci interessa meno dei personaggi, del loro desiderio di conoscenza e del loro dolore. E la commedia umana che Freud mette in scena fra il 1895 e il 1920 - negli anni in cui, come osserva Lavagetto, si attua la rivoluzione estetica che scardina la rappresentazione classica basata sulla verosimiglianza e sulla causalità, e in cui nasce la nuova letteratura - ancora turba, appassiona e coinvolge.


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