In fondo al barile del Caro Leader
di Marco Rovelli (il manifesto, 24/5/2011)
“Milano non può, alla vigilia dell’Expo 2015, diventare una città islamica, una zingaropoli piena di campi rom e assediata dagli stranieri a cui la sinistra dà anche il diritto di voto”. Il Caro Leader - trovandosi d’un tratto di fronte alla catastrofe personale, frantumatosi lo specchio narcisista come per Dorian Gray - invoca gli spiriti, raschiando il barile. E in fondo al barile c’è un humus fatto appunto di fantasmi evocati per dar corpo a quello stato generalizzato di paura da sempre funzionale alla richiesta di ordine.
Clandestini, islamici, zingari, comunisti ad abbeverare i cavalli in piazza Duomo: un esercito di fantasmi in fitta schiera. Troppo fitta per essere credibile, viene da pensare, come di un giocatore che si gioca tutte le sue carte in una mano sola non facendo che rivelare la propria oscena nudità. Perché l’evocazione dell’Altro come nemico funziona, lo sappiamo bene, ma non è sufficiente per sé sola. Può essere - ed è - un elemento catalizzatore: ma ci deve pur essere qualche cosa da catalizzare.
La costruzione della paura è un vettore fondamentale per l’acquisizione del consenso politico, Hobbes ce l’ha spiegato bene, e per la “servitù volontaria” degli uomini. Ma quando suona la ritirata ci vuole ben altro per rinserrare le fila: e invece il Caro Leader è lì ad enunciare il proprio assedio, e risulta palese la sua richiesta di soccorso, come fosse un prestigiatore che, di fronte al pubblico che abbandona il teatro, in stato confusionario apre la valigia e mostra a tutti i trucchi del mestiere.
Certo, questa extrema ratio potrebbe ancora funzionare: del resto il popolo italiano è stato così a lungo abbagliato dai miraggi di questo illusionista che davvero non sappiamo quanto sia stato antropologicamente modificato e pronto a credere a ogni bubbola. Ci hanno provato con la signora Rizzi che ha gridato all’aggressione (ma era costruita male, di fretta, anch’essa frutto di un evidente stato confusionale: “Mi prendeva a calci gridando Viva Pisapia”, e già solo questo è talmente ridicolo che nel momento di risveglio uno si rende conto che è solo un sogno di pessima qualità). E figuriamoci se in questi ultimi giorni accadesse uno di quei fatti di cronaca nera così clamorosi che non si potrebbe non pensare anch’essi costruiti ad arte.
Ma davvero forse stavolta siamo arrivati allo smascheramento finale. Perché - ed è questo il cuore della questione - l’armamentario retorico di una barbarie (islamici, zingari, stranieri) che assedia una città moderna e tecnologica - “alla vigilia dell’Expo” - fa certo leva su un immaginario di lunga durata, un immaginario razziale che percorre la storia della nostra modernità europea, ed è su questo che puntano il Caro Leader e i suoi spin doctors.
Ma quando la barbarie (etica, sociale, economica) è qualcosa che si percepisce come inerente al cuore stesso della propria società, si smette di preoccuparsi della barbarie dell’Altro, e la priorità diventa quella di risanare la propria. Ecco, forse a questo punto ci siamo, o quantomeno questa vicenda di Milano è un sintomo che ci potremmo arrivare.