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RICERCHE LOGICO-FILOSOFICHE (E POLITICHE), NELLA SCIA DI KANT (NON DI HEGEL, NON DI DEWEY, E NON DI HEIDEGGER). "L’Io è il mistero profondo", "e non dell’io in senso psicologico"(L. W., Quaderni 1914-1916).

WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO. Ne parla Arthur Gibson. Un resoconto di Riccardo Staglianò - a c. di Federico La Sala

Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l’ha cambiata dicendo il contrario. a sessant’anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un’altra volta
venerdì 3 giugno 2011 di Federico La Sala
[...] Spiega Gibson: «Da quest’archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po’ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l’idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell’uso ordinario (...)

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> WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO" ---- SCRIVERE IL SILENZIO. Ciò che la parola non può dire si deve scrivere: Carlo Sini ci spiega perché

venerdì 18 gennaio 2013

Wittgenstein

Ciò che la parola non può dire si deve scrivere: Carlo Sini ci spiega perché

      • Anticipiamo l’introduzione del filosofo al volume edito da Castelvecchi che si presenta come un ideale abbecedario dei fondamenti primi della filosofia

di Carlo Sini (l’Unità, 17.01.2013)

      • Essere e pensare Secondo Wittgenstein le proposizioni filosofiche sono illustrazioni; o anche immagini logiche degli stati di cose che incontriamo nel mondo. In altri termini: illustrazioni del mondo reale e possibile. Ma il problema è come possano esserlo. Che cosa accomuna una parola come bastimento, i suoni della voce, i tratti di penna della parola scritta, il disegno di un bastimento e l’immagine che si proietta nella nostra mente? Su questi enigmi si interroga il «Tractatus logico-philosophicus», ripercorrendo il problema fondamentale della filosofia. Nei termini di Parmenide: come accade che essere e pensare siano il medesimo? Sull’enigma dell’immagine si interroga il testo di Carlo Sini «Scrivere il silenzio. Wittgenstein e il problema del linguaggio» (Castelvecchi, pp. 320, euro 18,50), da mercoledì in libreria.

DICE WITTGENSTEIN NEL «TRACTATUS» CHE LE PROPOSIZIONI FILOSOFICHE SONO ILLUSTRAZIONI (ERLÄUTERUNGEN).Si potrebbe immaginare che le pagine che seguono, con la dovizia delle loro ingenue figurine, intendano prendere alla lettera, e certamente anche troppo alla lettera, il detto wittgensteiniano.

Le illustrazioni alle quali Wittgenstein si riferisce sono in realtà, nelle sue intenzioni, immagini logiche, non disegni; immagini logiche degli stati di cose che incontriamo o che potremmo incontrare nel mondo.

Il problema è quello dell’immagine in un senso logico-ontologico e non psicologico o empirico: il medesimo problema che Kant affronta nello schematismo trascendentale; e più in generale il problema della logica, sottratto alla miopia e ingenuità filosofica della mera disciplina formale. Il modo in cui Wittgenstein tratta nel Tractatus l’immagine logica fa giustizia di tutte le superficiali opposizioni tra figura e parola, oralità e scrittura, simbolo e concetto, razionale e irrazionale, intuizione e dimostrazione, fede e sapere e così via.

Per esempio Wittgenstein chiede come sia possibile che tratti di penna in forma di parole o veri e propri disegni possano significare qualcosa (in proposito l’esempio è “bastimento”); e poi come un semplice gesto vocale e non solo vocale possa a sua volta significare; e insomma che cosa sono i segni, quei segni che ci fanno pensare e che sono pensieri.

Il suo domandare, genialmente disorientante, di fatto torna al problema primo di tutta la filosofia, cioè a come si debba intendere che l’essere e il pensare si coappartengono, che siano tauton, il medesimo, pur nella loro palese diversità e differenza. Come si sa, la soluzione è etica, non teoretica, sicché tutto il Tractatus logico-philosophicus è letteralmente un esercizio, il cui fine è vedere rettamente il mondo entro il limite del linguaggio, onde evitare di «parlare a vanvera».

E in effetti come esercizio sono state immaginate anche le pagine seguenti, che furono dapprima una sorta di esperimento didattico universitario: un tipo inconsueto di dispensa di un corso di lezioni. Non un’esposizione lineare riassuntiva del discorso del professore, ma una libera disposizione di materiali, citazioni, commenti, riferimenti e infine schemi e figure in differenti e meditati luoghi e colori, le cui connessioni erano affidate al lavoro di ricostruzione dello studente.

Una sorta di «ideografia» (l’espressione, come si sa, è proprio di Wittgenstein) che considera un testo filosofico come un oggetto sul quale esercitare e affinare il proprio talento filosofico (e qui è ancora Kant che parla, poiché a filosofare, egli diceva, si impara soltanto con l’esercizio e usando autonomamente la ragione).

Se ricordiamo che pertanto in filosofia siamo continuamente bisognosi di esercizio, cioè siamo sempre principianti, potremmo, con un po’ di buona volontà e di autoironia, considerare questo libro come una sorta di abbecedario, di testo per la scuola elementare di filosofia, essendo in filosofia sempre in gioco appunto gli elementi, e anzi gli elementi primi, che mai nessuno però può pretendere di stabilire una volta per tutte e per tutti.

Figure di un abbecedario ma anche, dicevo nella prima versione del presente testo, qualcosa di simile ai segni di una partitura da eseguire nel pensiero, facendosi scorta di figure atte a orientare la memoria del lettore; figure che imitano l’ufficio, meravigliosamente spiegatoci da Ivan Illich1, delle miniature nelle pergamene medievali.

Proprio seguendo questa linea di pensieri, alla fine rivendico, al di là del tacere di Wittgenstein, un nuovo modo di intendere lo scrivere in filosofia, anche sulla scorta della espressione di Peirce che suona foglio-mondo. Non che queste pagine si propongano di realizzarlo, ove mai fosse davvero questo il problema; ne sono anzi, già dicevo anni fa, sideralmente lontane. Se nondimeno saranno riuscite a stimolare qualcosa di simile a una effettiva esperienza di pensiero, le loro molte imperfezioni potranno forse ottenere una benevola assoluzione da parte del lettore di buona volontà.


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