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RICERCHE LOGICO-FILOSOFICHE (E POLITICHE), NELLA SCIA DI KANT (NON DI HEGEL, NON DI DEWEY, E NON DI HEIDEGGER). "L’Io è il mistero profondo", "e non dell’io in senso psicologico"(L. W., Quaderni 1914-1916).

WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO. Ne parla Arthur Gibson. Un resoconto di Riccardo Staglianò - a c. di Federico La Sala

Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l’ha cambiata dicendo il contrario. a sessant’anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un’altra volta
venerdì 3 giugno 2011 di Federico La Sala
[...] Spiega Gibson: «Da quest’archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po’ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l’idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell’uso ordinario (...)

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> WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO" --- ANTROPOLOGIA E METAFISICA. In cammino con Dante: la scala di Giacobbe. Nella "Regola" di Benedetto da Norcia il mito del Dante cristiano(di Carlo Ossola).

martedì 31 agosto 2021

In cammino con Dante/24. Nella Regola il mito del Dante cristiano

Nei canti XXI e XXII del Paradiso insieme alla figura di Benedetto da Norcia si intrecciano quelle di san Romualdo e san Pier Damiani, due grandi anacoreti e riformatori della Chiesa

di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 29 agosto 2021)

      • [Foto] San Pier Damiani

I versi eponimi

-  Render solea quel chiostro a questi cieli
-  fertilemente; e ora è fatto vano
-  sì che tosto convien che si riveli.
-  In quel loco fu’ io Pietro Damiano

(Paradiso XXI, 118-121)

Alla simmetria dei canti XI e XII del Paradiso, celebri per il doppio elogio di san Francesco e san Domenico, corrisponde, più in alto ancora nella scala Paradisi, il ritratto di san Pier Damiani e san Benedetto, ai canti XXI e XXII. Dopo aver tracciato le origini dell’ordine francescano e domenicano, Dante evoca ora, nel cielo di Saturno, le origini dei camaldolesi di Fonte Avellana e san Pier Damiani, e poi di san Romualdo e san Benedetto e del suo ordine che fu modello per lunghi secoli, nella stabilitas loci, di operosa conciliazione tra la preghiera e le opere.

È indubbio che Dante, estremamente severo sulla corruzione della Chiesa secolare del proprio tempo, non disdegnando di condannare papi all’inferno, sia molto sensibile alla linfa che alla stessa è venuta dagli ordini regolari, dei quali, nei canti citati, richiama le origini e celebra i fondatori. E il poeta stesso enfatizza questo ruolo privilegiato di ordini chiamati alla contemplazione, collocando proprio in quel cielo di Saturno la ’scala di Giacobbe’: «Vidi anche per li gradi scender giuso / tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume /che par nel ciel, quindi fosse diffuso» (Par., XXI, 31-33), secondo il racconto della Genesi: «Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: ’Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza’» (Gen., 28, 1013).

L’evocazione è fatta proprio perché quel simbolo è posto da san Benedetto alla base stessa della propria Regola: «E dunque, o fratelli, se vogliamo toccare la cima dell’eccelsa umiltà, e giungere a quella celeste esaltazione, a cui si ascende per l’umiltà della presente vita, e a condurre in alto le nostre azioni, è necessario innalzare quella scala, che apparve in sonno a Giacobbe, per la quale si mostravano a lui gli angeli scendere e salire. Quel discendere e salire non va da noi inteso in altro modo, se non che si discende coll’esaltarsi, e si sale su coll’umiliarsi» (Regula sancti Benedicti, cap. VII: De humilitate, 5-7).

È una dimensione nuova dell’ordine celeste, l’ordine della contemplazione, come aveva illustrato Cromazio d’Aquileia: «E fu mostrata quella scala di Giacobbe, la cui cima dalla terra toccava il cielo, attraverso la quale chi vi ascenda trova la porta del cielo, e varcandone la soglia, senza fine rimarrà in letizia al cospetto di Dio e lo loderà in eterno con tutti gli angeli» (Sermo de octo beatitudinibus, IX; in PL, 20, 328A).

La presentazione dantesca avviene, in questi due canti, in ordine cronologico inverso, iniziando da san Pier Damiani per terminare col fondatore e radice di tutti i rami del monachesimo benedettino, e cioè san Benedetto stesso. I termini geografici entro i quali Pier Damiani (Ravenna, 1007 - Faenza, 1072) incornicia la propria vicenda spirituale, incentrata su Fonte Avellana: «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi, / e non molto distanti a la tua patria, / tanto che ’ troni assai suonan più bassi, // e fanno un gibbo che si chiama Catria, / di sotto al quale è consecrato un ermo, / che suole esser disposto a sola latria» (XXI, 106-111), sono simili e con pari solennità enunciati, a quelli con cui viene presentato san Francesco: «Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo, / fertile costa d’alto monte pende » (XI, 43-45).

Ma la ragione della predilezione dantesca è forse altra, e cioè l’avere il santo saputo unire vita contemplativa e vita attiva, rinunciando, dopo gli anni di priorato a Fonte Avellana (1043-1057), alla vita romita per divenire consigliere di papa Stefano IX, vescovo di Ostia e cardinale: «Poca vita mortal m’era rimasa, / quando fui chiesto e tratto a quel cappello / che pur di male in peggio si travasa » (XXI, 124-126), impegnandosi in una delle battaglie per Dante più essenziali all’avvenire della Chiesa, e cioè la lotta contro la simonia delle cariche. E tanto si legge anche nei primi Testimonia de vita Beati Petri Damiani ove si ricordano a un tempo le opere ascetiche e quelle riformatrici come il De avaritia praelatorum, e Contra episcopos simoniacos (PL, 144, 187C) che non potevano che essere care a Dante, ribadite nel suo polemico elogio: «Venne Cefàs e venne il gran vasello / de lo Spirito Santo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello. // Or voglion quinci e quindi chi rincalzi / li moderni pastori e chi li meni, / tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. // Cuopron d’i manti loro i palafreni, / sì che due bestie van sott’ una pelle: / oh pazïenza che tanto sostieni!» (XXI, 127-135). E soprattutto ammirabile appare, infine, nel suo uscire dagli onori e dalle pompe del mondo, dimessosi da tutte le cariche, ritornando (nel 1067) al monastero di Fonte Avellana: «episcopatui cessit, ut Deo liberius vacaret » (PL, 144, 188A).

Il desiderio di identificazione per Dante è tale che, nell’esprimerlo: «Io stava come quei che ’n sé repreme / la punta del disio, e non s’attenta / di domandar, sì del troppo si teme» (XXII, 25-27), si appropria delle parole stesse di Pier Damiani: «et in divinae contemplationis acumen totum desiderii sui figens affectum, gaudens, gaudet in Domino » (Sermones XXIX ; PL, 144, 661). Non diverso è il manifestarsi del fondatore di tutte quelle rinascite, san Benedetto, anch’esso ritratto tra i monti ove ancora vigevano culti pagani: «Quel monte a cui Cassino è ne la costa / fu frequentato già in su la cima / da la gente ingannata e mal disposta; // e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima» (XXII, 37-42). Dante qui segue fedelmente la Vita di Benedetto nei Dialogi di Gregorio Magno, in un elogio vigoroso di quella firmitas su cui è fondata ogni durata: «Qui è Maccario, qui è Romoaldo, / qui son li frati miei che dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo» (XXII, 49-51). ’Fermar li piedi e tenner il cor saldo’: questo è il credere di Dante e, non meno, la sua visione della Chiesa: «ma Cristiani, in ferma fede » (Par., XX, 104). ​


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