Elezioni di primavera
di Rino Mele (“Roma” - edizione salernitana, martedì 31 maggio 2011)
A volte, quasi all’improvviso, tutto cambia: quello che fino a ieri era consuetudine, assuefazione, servile accettazione di un dolore quotidiano, potrebbe finire: come svegliarsi, liberandoci da quei sogni pomeridiani in cui sembra di volare naufragando e, inabissandoci, salvarsi. Ieri l’Italia ha cambiato volto, l’Italia antica dei Comuni, quegli spazi del lavoro e dell’anima collettiva stretti intorno al nostro cuore come una corona (o un cilicio), luoghi dell’infanzia nostra o dei nostri figli, dove riconosciamo il volto del vicino come fosse il nostro (nei paesi, le fotografie poste negli angoli degli specchi servono a raddoppiare la memoria, i ricordi d’amore e di pena).
Le elezioni amministrative sono politiche perché il cammino dell’Unità d’Italia è ancora lungo e l’Italia dei Comuni non è stata superata, stiamo ancora uno di fronte all’altro (fratelli ostili) a guardarci dalla finestra, a riconoscere l’inizio del paese -quando torniamo- dall’odore dei campi seminati.
Le elezioni di ieri a Napoli, Milano, Cagliari, Trieste, Pordenone (in tanti altri luoghi della nostra Italia) sono state come un vento violento e fresco, vorrebbero costringerci a diventare diversi e nuovi, ad aprire le finestre di un pensato futuro per far entrare finalmente quel vento pulito, che mandi via lo stanco e strabico clientelismo, la burocratizzazione del potere. Da ieri, possiamo dire basta, ognuno per la parte che gli compete, ricostruire il nostro personaggio, assegnargli una parte più decente, svestire i panni del servo e indossare la camicia dell’uomo libero.
Ma bisogna farlo subito, non addormentarsi in una gioia sterile, lavorare con orgoglioso entusiasmo all’opera faticosa che la libertà (questo nuovo liberarsi) richiede.
Le elezioni appena terminate possono rappresentare l’inizio della distruzione degli steccati dell’imperturbabile egoismo, quei confini stretti che l’avidità traccia intorno ai privilegi e rende incapaci di guardare e capire la presenza umiliata di chi soffre, i lavoratori senza lavoro (ed è la più atroce delle contraddizioni) i malati mal curati, i vecchi abbandonati nel loro stupefatto vuoto, i bambini senza infanzia. E, soprattutto, salvare i giovani, che cercano volgendosi indietro il loro futuro. Da ieri un vento nuovo schiarisce d’emozione il nostro volto, possiamo lasciarlo andar via o correre nella primavera della sua forza.