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MEDICINA E ILLUMINISMO KANTIANO. L’OMEOPATIA E IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA ("SAPERE AUDE!": KANT, 1784). "ORGANON DELL’ARTE DEL GUARIRE": "AUDE SAPERE" (HAHNEMANN, 1819).

C. F. SAMUEL HAHNEMANN: CRITICA DELLA RAGIONE MEDICA. LINEE-GUIDA PER DIVENTARE MEDICI RESPONSABILI (SENZA VIRGOLETTE). Alcune sue pagine (del 1825) tutte da rimeditare - a c. di Federico La Sala

La migliore occasione per esercitare e perfezionare la nostra capacità di osservazione è fornita dall’istituire esperimenti con farmaci su noi stessi.
mercoledì 28 maggio 2014
"Era angosciante per me procedere sempre al buio, senz’altra luce se non quella che si poteva ricavare dai libri, quando dovevo guarire i malati [...] Non potevo curare coscienziosamente le nuove e ignote affezioni morbose dei miei fratelli malati con quei farmaci sconosciuti [...] Diventare in tal modo l’assassino o il torturatore dei miei fratelli era per me un’idea tanto terribile e opprimente che, subito dopo il mio matrimonio, rinunciai all’esercizio della professione medica e mi (...)

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> CRITICA DELLA RAGIONE MEDICA. LINEE-GUIDA -- «La Cura» (Salvatore Iaconesi e Oriana Persico). Una guarigione open source (di A. Pigliaru)

giovedì 19 maggio 2016

Una guarigione open source

TEMPI PRESENTI. Intervista con Salvatore Iaconesi e Oriana Persico che nel loro libro, «La Cura» (Codice edizioni), raccontano perché dopo una diagnosi di tumore al cervello hanno hackerato le cartelle cliniche e lanciato un progetto che è diventato un workshop vivente

di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 18.05.2016)

Ingegnere robotico e hacker, Salvatore Iaconesi ha sempre lavorato con le tecnologie open source. E quando nel 2012 scopre di avere un cancro al cervello si affida a esse ancora una volta. Così in una stanza anonima di ospedale, alla presenza di Oriana Persico, sua compagna, cyber-ecologista ed esperta di comunicazione e inclusione digitale, nasce l’idea di mettere la cartella clinica online.

Dopo aver toccato con mano la medicalizzazione della malattia, il posto del paziente all’interno di un percorso che spesso lo estromette linguisticamente, quell’evento - seppure così traumatico - non può segnare solo una frattura spaesante ma deve essere tradotto. E la traduzione è quella di una malattia che diventa un’informazione accessibile a tutte e tutti, aperta come prevede l’idea stessa di open source, diffusa e coadiuvata da altre e altri come chi conosce la rete sa rendere.

Iaconesi hackera i suoi referti e li condivide in un sito internet che chiama «La Cura». Scopre che non può esisterne una parcellizzata solo di carattere medico, a lui ne interessa una più ampia. Sociale, proprio perché a essere coinvolto in una malattia non è solo l’interessato ma a vario titolo anche altri soggetti, intanto chi sta più vicino.

Rintracciato quindi il legame tra le tecnologie open source e la fragilità della esposizione alla malattia, Iaconesi e Persico si mettono a lavorare di immaginazione.

La cura che immaginano è quella che può arrivargli quindi da un poeta, da un artista o da chiunque interpreti e voglia contribuire allo scardinamento dell’algidità del dato. Insomma pretende che la cura, al di là delle significazioni diverse secondo le latitudini in cui viene nominata, assuma tutte le codifiche possibili: emotiva, politica, scientifica, psichica, spirituale e tutte le altre forme di cura possibili.

Quando si chiede un cambio di paradigma, come ha fatto Salvatore Iaconesi, le conseguenze sono imprevedibili. E così è stato. Il messaggio nella bottiglia virtuale del web viene lanciato e in pochi giorni il sito diventa virale, 500mila contatti da tutte le parti del mondo e ancora ad aumentare nelle settimane successive per arrivare a milioni di utenti. Pareri, questioni, semplici parole.

Salvatore Iaconesi e Oriana Persico vengono invasi da risposte, richieste di contatto, via mail e social network. Nessun pietismo, bensì partecipazione attiva. Neurochirurghi, oncologi, medici di base, ma anche performer, scrittori e donne e uomini che desiderano condividere la propria esperienza, fanno il giro del web e il progetto diventa il raccoglitore per una mappa che non è solo quella di un cervello con un tumore ma una più vasta interconnessione tra viventi.

Dopo tre anni e mezzo, l’esperienza di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico è diventata un libro: La Cura (Codice edizioni, pp. 346, euro 15, prefazione di Pier Mario Biava, postfazione di Emilio Simongini, nota conclusiva di Ervin Laszlo). Incontriamo Iaconesi e Persico dopo il loro rientro da Bologna per un breve ciclo di incontri dedicati al tema che è stato denominato il primo festival della «Cura».

Di cosa si tratta?

(SALVATORE IACONESI) Da un lato è un imbuto in cui far convergere tutto ciò che è stato fatto intorno al progetto. Quindi i contributi sono diversi e provengono dall’arte, dal design, ma anche dall’antipsichiatria, dalle pratiche queer e altro. D’altra parte è un esperimento di sincretismo in cui si manifestino insieme diversi approcci, una logica dell’interconnessione o, per dirla con Massimo Canevacci, dell’indisciplina metodologica per affrontare complessità che vanno oltre il problema della malattia. Il cancro, come abbiamo detto e scritto, è anche una metafora.

Ciò che avete innescato, seppure sia partito da un’urgenza precisa, è da leggersi come un percorso che inizia dalla domanda intorno al rapporto tra malattia e sistema sanitario...

(S. I.) C’è un ambito amministrativo e burocratico, cioè quello della codifica, e un altro ambito che invece è quello umano. La malattia si manifesta in entrambi questi ambiti ma in modi differenti. Nel primo ambito però, quando ci si ammala si scompare e si diventa soggetto amministrato che corre il rischio di credere di essersi davvero trasformato in un’entità divisibile, burocratica. E questo è un disastro, letteralmente, cioè la perdita dell’astro, della direzione.

Quale è stata la vostra esperienza?

(ORIANA PERSICO) I dati delle cartelle cliniche non sono per i pazienti, sono anch’essi metafore, cioè codici slegati dalla comprensibilità del paziente e che afferiscono a un linguaggio burocratico. Rimettere mano a tutto ciò e inserirli su web ha significato dare avvio a qualcosa di improbabile dove sono accadute cose strane e meravigliose, leggibili; dove a compiersi è stata proprio la metafora per cui dalla separazione si riporta la malattia nuovamente dentro la società. Riguardo il resto, c’è da tenere ben distinti i piani del sistema sanitario che induce a un approccio classificatorio, per protocolli precisi, e gli operatori e le operatrici che si incontrano e che io e salvatore abbiamo incontrato. Si misurano anche loro con codici, protocolli, penurie finanziarie e tutta una serie di fitte traiettorie. Ciò nonostante, fanno il meglio che possono e si vanno a innescare con molti di loro relazioni che eccedono dalle maglie del sistema sanitario.

Ciò che raccontate in questo libro è quel che vi accade da quell’agosto del 2012, quando Salvatore scopre di avere un cancro al cervello. Tuttavia non è solo una cronaca, bensì il risultato di una trasformazione già avvenuta. Ciò che emerge è anzitutto una visione del mondo e un metodo di relazione...

(S. I.) Mi viene in mente Bruno Latour, che amo molto, quando parla delle reti di relazioni che non esistono se non sono agite e che muoiono se non vengono performate. Credo sia importante, soprattutto in questa epoca di supereroi, di narratori dell’innovazione, in realtà c’è un completo stato di delega percettiva verso questo supereroe che dovrebbe salvare il mondo. Questo stato di delega atrofizza le relazioni, si sta in attesa che arrivi e che ci dica cosa fare. Allora bisognerebbe trovarne un altro almeno di tipo interconnettivo, che preveda la mutazione, che sia cioè un brand open source, il luogo stesso delle relazioni. In questo senso bisogna ri-agire costantemente gli immaginari, riaprirli e rimetterli in discussione e circolazione, utilizzare «modelli» che non siano calati dall’alto ma da reinventare come corrispondenti alle vite.

Come sottolineate, il libro è stato costruito in questa direzione per evitare di trasformarvi in supereroi. Il rischio di un’operazione simile è quello di acquisire le sembianze di icone pop, mediaticamente rimasticabili che dunque consegnano l’equivoco funzionante e vincente dell’invulnerabilità...

(O. P.) Questo è stato uno dei primi blocchi quando abbiamo pensato di scrivere il libro. Ecco perché il tempo trascorso e la decisione di mettere al centro i workshop e non di fare delle semplici presentazioni in giro per l’Italia. Ogni volta viene a rinnovarsi una relazione sempre viva, i dialoghi non possiamo preventivarli. Allora il libro è anche una guida, prima di tutto per noi, e per i processi che si sono avviati e che in parte non possiamo controllare. Gli stessi territori che si attivano, come nel caso di Bologna, o le scuole (da molte parti d’Italia, ndr) non chiedono solo di discutere il volume ma domandano di esulare dalla malattia e di concentrarsi su altre tematiche. È stato il caso di un gruppo di studenti di un liceo di Pisa che ci ha chiesto di discutere la cura in rapporto alla famiglia.

Il tumore è stato asportato, nel libro raccontate anche di questo insieme a questioni di carattere tecnico-teorico. All’interno della struttura, distinta per capitoli che portano la sigla prima di uno e poi dell’altra, segnalate un’ambivalenza nell’apertura dei dati. Cioè gli open data sono sì accessibili, ma è nella stessa apertura che si prevedono rischi. In che senso?

(S. I.) C’è un rischio in tutto ciò che attiene al digitale contemporaneo o che ha a che fare con esso. questo rischio è di considerare i beni comuni solo come risorsa. Quando invece si parla di commons - di cui la traduzione beni comuni non rende l’esatta portata - non bisognerebbe tacere dell’ecosistema relazionale di alta qualità che è l’unico modo con cui si riesce a trarre senso dalla gestione di questi «beni». Il bene e l’ecosistema relazionale ad alta qualità non sono scindibili, ecco perché nel libro si preferisce utilizzare il termine commons che è l’unione dei due elementi e che prevede la dimensione collettiva. Questo ecosistema prevede l’esistenza di desideri, di linguaggi, di corpi, di immaginari. Quando si parla di open data non c’è alcun lavoro su queste dimensioni. Quindi certo che vi sono istituzioni che maneggiano open data ma non fanno nessun lavoro sulle relazioni che a essi sono sottese. Tutto ciò produce cortocircuiti e impatti giganteschi, vi è un’illusione in quell’apertura che se non tiene conto di corpi e di niente si riduce a una trasparenza inservibile.

In questa cartografia della complessità che voi disegnate, riconducete ad alcuni strumenti che avete utilizzato. Tra questi c’è quello dell’autobiografia e in particolare, come dite, dell’autobiografia delle donne. Dite che «bisogna imparare dalle donne», dire loro grazie. Affermate infatti che la codifica sui corpi vale per i pazienti così come per le donne anche se vi sono delle differenze, spiegate un po’?

(O.P.) C’è il situarsi nel mondo di un soggetto. La capacità dell’autobiografia è quella di situarsi sotto diverse declinazioni, economiche, politiche e assumersi le responsabilità di tutto questo. Anche aver messo in condivisione gli open data della cartella clinica può essere un atto di autobiografia radicale, perché sono stati resi leggibili e non più astratti. In questo senso il metodo insegnatoci dalla autobiografia delle donne ci restituisce il segno di quel situarsi, perché situandosi ci si sottrae dal dominio di un regime di separazione. Questo le donne non l’hanno fatto solo per le proprie simili ma per tutti. Le femministe ci insegnano che non esistono soggetti universali, che le storie vanno situate perché esistano nelle diversità.

Non ci si ammala da soli, su questo che non si ripete mai abbastanza, avete fatto un discorso preciso...

(O.P.) Nel nostro caso c’è stato un bisogno non di condividere ma di trovare significati a quanto stavamo vivendo. Non volevamo subire una doppia violenza, quella della malattia da un lato e quella dell’isolamento protocollare dall’altra. Per prossimità mi sono ammalata pure io, ero costretta anche io a stare all’ospedale, ad adeguarmi a mille sotterfugi e sorrisi per fare in modo che non mi cacciassero, che mi lasciassero un po’ di più. Il tempo si scandiva dall’apertura e dalla chiusura di quei cancelli e dai colloqui con i medici. In questo senso l’appello della Cura non è un monito buonista, se quando rinuncio o vengo meno al riconoscimento di essere un soggetto relazionale riduco la mia visione. Agire l’autobiografia in modo consapevole non è rivolto alle storie speciali, quelle sono state scritte dagli uomini potenti che hanno raccontato qualcosa che immaginavano di dover lasciare ai posteri. L’autobiografia che abbiamo invece voluto sperimentare è la scoperta di non essere soli e di esistere proprio grazie alle nostre relazioni.


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