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LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....

FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta" - a cura di Federico La Sala

Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse.(...)
lunedì 27 giugno 2011 di Federico La Sala
[...] quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in (...)

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> FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. --- Hegel e lo spirito del (nostro) tempo. La «civetta di Minerva» e la «talpa» (di Remo Bodei)

domenica 2 novembre 2014

Hegel e lo spirito del (nostro) tempo

Il filosofo Remo Bodei interroga le radici profonde del pensiero del grande tedesco. E spiega come ha agito. La «civetta» non basta più

      • IL LIBRO. Il testo in questa pagina anticipa l’uscita del libro del nostro collaboratore Remo Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel (il Mulino, pagg. 384, e. 25,00). Il nuovo saggio, originariamente uscito con altro titolo nel 1975, rielabora ampiamente quel volume [...]

di Remo Bodei (Il Sole Domenica, 02.11.2014)

Per comprendere il pensiero di Hegel nel suo sviluppo sistematico sono partito dalla forza di suggestione ancor oggi esercitata da alcune metafore e dalla cascata di luoghi comuni, pregiudizi ed errori che sono derivati dalla loro interpretazione. Mi sono soffermato, in particolare, sulla più famosa, quella della «civetta di Minerva», intesa come emblema della filosofia al suo crepuscolo, quando il processo di formazione della realtà appare ormai concluso.

La civetta ha, tuttavia, un antagonista-collaboratore nella «talpa», che testimonia come la storia non finisca con il tramonto di un’epoca e come la filosofia non concluda affatto il suo cammino. L’immagine dominante di un sistema chiuso o di un atteggiamento politico sostanzialmente rinunciatario nello Hegel della maturità, poggia, appunto, anche sul fascino di queste fortunate metafore.

Ma quale è il rapporto fra la "civetta" della filosofia, che interpreta in maniera vigile e cosciente le modificazioni prodotte dall’epoca, e la "talpa" dello "spirito", che trasforma inconsciamente l’epoca stessa mediante un lavorio cieco ma rivolto a un fine sconosciuto ai contemporanei? Fra la filosofia, che sembra vedere e non fare, e il movimento storico, che sembra fare e non vedere?

Hegel sarebbe stato davvero un folle se avesse creduto di essere l’ultimo filosofo o che si fosse di fronte alla «fine della storia». Riteneva, invece, di essere un ordinatore sistematico di concetti ed esperienze, un filosofo che non inventa niente, ma che è chiamato a dare forma intelligibile a un’intera fase storica ormai al tramonto, agli anni «più ricchi che la storia universale abbia avuto».

In questo senso si paragonava implicitamente ad Aristotele, che presentò la sua summa alla fine dell’Atene classica. A sua volta, la storia del mondo per lui ovviamente continuerà, ma - soprattutto quella europea - dovrà superare una fase critica i cui esiti imprevedibili sono provocati dal sotterraneo scavare della "talpa".

Lo mostrano con abbondanza di documentazione i corsi di Heidelberg e di Berlino che continuano a essere pubblicati da alcuni decenni. In essi si descrive, ad esempio, la mutata funzione dello Stato e della società civile in un periodo storico in cui i processi di globalizzazione non avevano ancora raggiunto le proporzioni attuali, ma in cui le crisi economiche avevano già mostrato un altro volto nei loro contraccolpi sulla precarizzazione dell’esistenza di individui e popoli. Interessato fin dalla gioventù all’economia politica, lettore di giornali e riviste inglesi, scozzesi e francesi, legato alle discussioni sui sansimoniani, egli analizza le idee di lavoro, disoccupazione e miseria in una civiltà dominata dalle macchine e dal Kapital, un «animale selvaggio» che si sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento.

Osserva come la ricchezza si concentri sempre più in poche mani, con la conseguente creazione di una enorme massa di «lavoratori disoccupati», di esseri umani sospinti nella miseria più spaventosa e umiliante che li abbrutisce e alla quale si cerca inutilmente di porre rimedio con dei "palliativi", come l’emigrazione nelle colonie. Giunge a dire che tale estrema miseria rende lecito a chi la subisce anche il furto per la propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l’uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto di un’epoca è per lui sostanzialmente legato all’insolubilità di conflitti come questi.

Ho posto inoltre una serie di domande cruciali e ineludibili, a partire dalla definizione hegeliana della filosofia come «il proprio tempo appreso col pensiero»: Cosa significa pensare il proprio tempo? Come si configura la concretezza del presente attraverso la sua trascrizione in concetti, mediati da una approfondita conoscenza dell’analisi infinitesimale e delle scienze naturali (fisiologia, zoologia, chimica, geologia), frutto del serrato confronto con gli scienziati del tempo, da Lagrange a Bichat, da Lamarck a Cuvier o da Wener a Hutton? Qual è il senso dell’isomorfismo fra la struttura sistematica della sua filosofia e il campo dei mutamenti storici? Perché, in polemica con i romantici, Hegel disprezza il mondo della natura a favore di un patriottismo dell’umanità e della civiltà, fino al punto da definire il cielo stellato una «eruzione cutanea luminosa» e «il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo»? Perché il sistema pretende ora di essere la forma suprema della filosofia come scienza rigorosa?

Se Hegel si fosse limitato ad attribuire alla filosofia la natura di filia temporis, o se anche (per citare Ruge e Marx) avesse osato «metterne in piazza il segreto» e farla retrocedere da messo celeste a Zeitungskorrespondent, a inviato speciale di un’epoca, in fondo non avrebbe compiuto alcuna mossa teorica particolarmente scandalosa. Perfino un filosofo relativamente modesto come Karl Leonhard Reinhold aveva scritto nel 1801 un’opera intitolata Lo spirito dell’epoca come spirito della filosofia.

Fichte, poi, era giunto nei Tratti fondamentali dell’epoca presente a caratterizzare la propria età come un fronte che avanza dall’oscuro dominio dell’«istinto della ragione» al trasparente autogoverno della «scienza della ragione», come un momento storico «in cui si scontrano e si combattono mondi fra loro assolutamente ostili» e in cui, nel medesimo «tempo cronologico», possono «incrociarsi e scorrere l’una accanto all’altra, in diversi individui, epoche differenti»; soltanto il «tempo del concetto» era per lui in grado di correlare e di esprimere questi dislivelli nella storia dei singoli e dei popoli.

Nessuno, prima di Hegel, aveva, tuttavia, osato tradurre integralmente e consapevolmente lo svolgimento del proprio tempo sul piano di un organico sviluppo di forme del pensiero, di un sistema che avesse l’ardire di raffigurare, nel «semplice fuoco» del concetto, l’immagine virtuale dell’epoca.

Nessuno aveva dato tanta importanza alla storia e costruito una «rete adamantina» di categorie volta a rappresentare l’orizzonte massimo di intellegibilità di un’epoca che pretende di includere in sé, telescopicamente, i principi delle epoche antecedenti; nessuno, tranne - a suo modo - Montaigne, aveva svuotato il preconcetto che attribuiva alla «natura umana» un’essenza metastorica, mostrando come «la natura vivente è eternamente altro che il suo concetto, per cui quello che per il concetto era semplice modificazione, pura accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse ciò che unicamente è naturale e bello».

In un appunto che aveva preparato poco prima di morire per l’introduzione al corso di filosofia del diritto del 1831-1832, al posto tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820, compare ora la «talpa», quasi a significare che l’avvenire è segnato dalle oscure forze dell’istinto e che l’unica cosa che gli occhi della civetta sembrano ora cogliere è proprio l’incertezza del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a portare i propri "lumi" in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque, giungere a compimento.


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