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LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....

FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta" - a cura di Federico La Sala

Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse.(...)
lunedì 27 giugno 2011 di Federico La Sala
[...] quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in (...)

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> FILOSOFIA IN STATO COMATOSO --- La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei (di Francesco Postorino)

mercoledì 7 settembre 2016


La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei

di FRANCESCO POSTORINO *

Remo Bodei ha recentemente pubblicato "Limite" (il Mulino), una importante riflessione filosofica sull’idea di limite nell’epoca della globalizzazione. In questa intervista, si ricapitolano di questa riflessione i tratti principali.

Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in particolare, nella modernità?

Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.

Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.

Se guardiamo specificamente alla filosofia, nel periodo da Locke a Kant, la filosofia moderna si è interrogata a lungo sui limiti dell’intelletto umano. Fin dove può giungere una solida conoscenza basata sull’esperienza o sul sapere matematico prima di lasciare spazio alla fede o alla metafisica, ossia a questioni indecidibili e a convinzioni non razionalmente argomentabili? Se per Locke ogni idea trae il suo materiale unicamente dall’esperienza dei sensi, è chiaro che non si può attribuire valore di verità a quanto si pone al di fuori di essa. Kant, a sua volta, delimita la sfera di validità dell’esperienza paragonando l’intelletto a un’isola dai confini ben precisi, circondata da un mare di apparenze, verso il quale gli uomini si sentono però irresistibilmente attratti.

La tentazione da evitare è quella di lasciarsi attirare dalle Sirene della metafisica, che invitano allo scriteriato viaggio nell’oceano dell’apparenza, di lasciarsi sedurre da ciò che è inverificabile e contrario all’unica verità alla nostra portata, quella dettata dall’esperienza. Non bisogna quindi abbandonare il solido terreno di quest’isola dai “confini immutabili” per affrontare un’impresa che è, comunque, destinata al naufragio. Sul terreno della dialettica, ossia dell’illusione di poter risolvere problemi insolubili (ad esempio, se l’anima è mortale o immortale o se l’universo è finito o meno), non ci sono altro che “antinomie”, soluzioni in contraddizione tra loro.

Lei traccia una linea continua che parte da Machiavelli, Hobbes e giunge fino a Nietzsche, Bataille e Simone Weil. Il nichilismo contemporaneo si rivela l’esito coerente del processo moderno di secolarizzazione? Non vi è rottura cioè tra moderno e post-moderno?

Il nichilismo, nel suo volto meno drammatico, implica l’impossibilità di giungere a norme e a forme di conoscenza di natura assoluta. L’aforisma 125 della Gaia scienza di Nietzsche, una volta stabilito che l’espressione “Dio è morto” è pronunciata dall’“uomo folle”, un pazzo che non si è reso conto di avere compiuto un’azione più grande di lui, è in grado di scatenare conseguenze imprevedibili. Ammazzando Dio - unità di misura fissa e dispotica di tutti i valori, guida morale, oltre che religiosa - egli ha, infatti, essiccato la sorgente di tutti i comandamenti e di tutti i limiti, ma, nello stesso tempo, ha anche creato uno spazio di libertà, che rischia di trasformarsi in un vuoto che gli uomini, privati di una fede che dava senso alle loro vite, non sono ancora capaci di colmare (lo stesso uomo folle dice anche di essere venuto “troppo presto”, in quanto la notizia di un simile misfatto non è ancora arrivata “alle orecchie degli uomini”). L’esclamazione “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso” non è quindi un grido di giubilo, perché scarica sugli uomini la terribile responsabilità di vivere in un mondo privo di stabili punti di riferimento e tendenzialmente votato al nichilismo.

Come ho appena detto, la modernità ha cercato da Kant a Locke e oltre di porre dei limiti al relativismo, di stabilire delle frontiere tra il conoscibile e l’inconoscibile, di mettere in mora la metafisica. Il cosiddetto pensiero post-moderno ha generalmente tratto le conclusioni e sostenuto l’assenza di ogni verità assoluta, ripetendo la nozione del primo Nietzsche che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Si è però avvitato su se stesso ed è diventato pura retorica, dimenticando, inoltre, che Nietzsche stesso ha poi considerato “vile” chi non cerca la verità. Il postmoderno (termine che mette insieme troppe cose eterogenee fra di loro) ha comunque portato alle estreme conseguenze aspetti già presenti nella modernità (si pensi soltanto a Hume, a Schopenhauer o a Nietzsche stesso).

Rimaniamo sul pensiero moderno. Galileo e Newton cercano di cogliere, con metodi matematici, il significato ultimo della natura. La filosofia di Hegel, con la peculiare esaltazione del Concetto, sembra tradursi in una sorta di panlogismo. Come si conciliano questi e altri residui metafisici con la direzione immanentistica e «senza limiti» inaugurata dalla stessa modernità?

La ragione non costituisce in Hegel un pinnacolo gotico, un vertice del pensiero astratto che si innalza e domina sovranamente la realtà effettuale (Wirklichkeit), espungendone il negativo, unificandone le parti forzatamente e senza residui e cancellandone gli aspetti empirici. Malgrado alcuni clamorosi errori, egli non ha l’improntitudine di voler piegare i saperi scientifici adattandoli al letto di Procuste della sua filosofia. Queste accuse, che avevano un senso polemico quando furono formulate da Schelling, da Feuerbach o dal giovane Marx, si sono poi inflazionate e banalizzate. Il pensiero hegeliano non è monolitico, non è prevaricazione dell’idea sulla realtà effettuale, non è sintesi conciliatoria degli opposti o «panlogismo». Hegel ha una straordinaria fedeltà alle contraddizioni, al dolore, al negativo, che per lui (contro ogni tentazione utopistica) non scompariranno mai, sono ineliminabili dalla vita.

Hegel aveva inoltre una profonda conoscenza delle scienze, specie dell’analisi infinitesimale, da cui traeva il concetto stesso di infinito e di rapporto. Si è reso conto di qualcosa che solo con Cantor e poi con Gödel verrà alla luce, vale a dire contraddizioni interne a ogni forma di conoscenza (per Cantor, ad esempio, ciò accade attraverso quei numeri transfiniti che hanno mostrato il paradosso secondo cui la parte - poniamo l’insieme dei numeri interi dispari - è «equipotente», ossia ugualmente infinita, come l’insieme dei numeri naturali interi, pari e dispari); in termini hegeliani, nessun sistema dunque può giustificare se stesso. In questo senso, si potrebbe dire che Hegel lega ogni filosofia alla sua epoca, al “proprio tempo appreso con il pensiero”. In più, non bisogna guardare solo alla logica, ma all’insieme appunto del sistema, come in una lingua non si guarda solo alla grammatica.

In contrasto con la kantiana “isola dai confini immutabili”, Hegel è contro ogni limite, se non altro per il fatto che l’idea di limite implica che la limitazione medesima sia già stata implicitamente trascesa. Egli ha perciò voluto abbandonare il terreno solido dell’esperienza ristretta, la verità come assenza di movimento, per arrischiare il “viaggio di scoperta” della sua Fenomenologia dello spirito. In essa la verità non consiste più nel poggiare sul fondamento immediato di qualcosa (l’intelletto kantiano o l’Essere della metafisica tradizionale), ma nel continuo oltrepassare se stessa, nel ‘fare il punto’ ad ogni tappa per poi proseguire. La dialettica moderna nasce sotto il segno di questa metafora dell’Oceano nordico. Tra apparenza e verità, tra fenomeno e noumeno non vi è più opposizione assoluta: nei fenomeni si mostra anzi il progressivo apparire della verità.

La narrazione liberale, laica e occidentale riassume meglio di altre civiltà il senso autentico del «limite»?

Contro ogni forma di razzismo e di sciovinismo, è giusto rifiutare la gerarchia tra le culture, sostenere il concetto di métissage di tutti gli uomini, di impollinazione culturale reciproca, di rivalutazione delle “differenze”, di rifiuto della boria dell’Occidente che si autoproclama portatore dell’unica civiltà degna di questo nome. Ma quando ci si ricollega alla propria cultura quale fonte primaria di espressione e come orizzonte simbolico immediato e la si equipara idealmente alle altre, occorre - credo - stare anche attenti a non obbedire a radicati pregiudizi ideologici ponendole tutte meccanicamente sullo stesso piano. Capisco che forse a qualcuno queste posizioni potranno dispiacere o sembrare apologetiche e so bene che l’“Occidente” ha tremende responsabilità storiche nelle tragedie verificatesi nel pianeta durante l’ultimo mezzo millennio. Eppure, alcune conquiste del cosiddetto “razionalismo occidentale” sono preziose. E non soltanto nel campo delle scienze, ma anche in quello delle forme politiche, come il liberalismo (che ha il suo centro nell’idea di libertà) e la democrazia (che ha il suo centro nell’idea di eguaglianza). A meno che non si creda di rispettare realmente una cultura oppressa rivalutando direttamente l’opera dello stregone, il rogo delle vedove, le pratiche di infibulazione.

Anche oggi, nell’epoca della globalizzazione, diversi tempi storici coesistono nel nostro pianeta per effetto di culture che vivono in diverse fasi di sviluppo o in diverse condizioni: dinanzi a quello dell’accelerazione e dei riferimenti globali introdotto dalle potenze coloniali, resta spesso in molti paesi il tempo più lento delle società tradizionali, che come ha mostrato Jared Diamond in Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali, ha anche i suoi vantaggi. Ricorrendo a una terminologia weberiana, si può dire che dovunque lo “spirito del capitalismo” è stato esportato, ha dovuto necessariamente abbandonare il suo humus etico, che lo sosteneva e lo rendeva accettabile, in quanto sorretto da delicati servo-meccanismi di promozione e di autorettificazione di un sistema messo a punto attraverso lotte e compromessi durati a lungo e non immediatamente riproducibili. Il suo impatto su società relativamente stazionarie o a sviluppo più lento (caratterizzate dalla "storia fredda") è stato spesso devastante. I “tentacoli del progresso” che l’Occidente ha lanciato sul resto del mondo hanno trasferito i processi di industrializzazione o la tecnologia applicata alle comunicazioni, all’igiene pubblica, ma non hanno esportato e plasmato in loco una cultura adeguata, né altri popoli colonizzati o influenzati dall’Occidente sono stati generalmente in grado di sviluppare degli anticorpi o degli ’ammortizzatori’ a questo impatto. Il senso di colpa dell’Occidente o di altri popoli, anche rispetto al passato, è certo un sentimento nobile, che implica anche la necessità di una riparazione per le devastazioni che sono state compiute in interi continenti. Gli europei si sono senz’altro presentati in vesti di evangelizzatori e di missionari della civiltà e hanno distrutto innumerevoli culture.

In questa prospettiva, i moderni processi di globalizzazione hanno avuto il pregio di mettere in rapporto civiltà per secoli o millenni isolate o relativamente isolate, di promuovere le conoscenze reciproche, i viaggi e i commerci, ma hanno anche preteso di portare ogni popolo e gruppo allo stesso livello della cultura dominante. Il risultato è che le gerarchie tra culture si sono accentuate.

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