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LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....

FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta" - a cura di Federico La Sala

Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse.(...)
lunedì 27 giugno 2011 di Federico La Sala
[...] quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in (...)

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> FILOSOFIA IN STATO COMATOSO --- La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei (di Francesco Postorino)

mercoledì 7 settembre 2016

      • CONTINUAZIONE - E FINE.
        -  La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei *

Lei scrive che l’insediamento della democrazia sostituisce il potere divino e il carattere rigido di ogni possibile autorità. Eppure Alexis de Tocqueville e J. S. Mill, solo per fare gli esempi più noti, ci mettevano in guardia di fronte ai pericoli della «tirannia della maggioranza» e del conformismo di massa.

È vero che la democrazia attuale subisce una deriva verso la tirannia della maggioranza e il conformismo di massa (aggiungerei verso il populismo). Alla politica si affianca e si intreccia, infatti, con sempre maggiore intensità, il pettegolezzo. Già Heidegger aveva denunciato la “chiacchiera” come segno del conformismo che esonera il singolo dalla responsabilità delle sue affermazioni, ma si riferiva ancora a quei discorsi spontanei, frivoli o banali, che ci sono sempre stati. Oggi la comunità di vicinato, con le sue comari e le sue lingue lunghe, è quasi scomparsa, sostituita da una fiorente industria del gossip. E, come è accaduto anche nel passato, per motivi di convenienza e di consenso, la politica preferisce bypassare il pensiero critico e mettersi in sintonia con il senso comune dominante. La differenza consiste nella sostituzione dei consiglieri del principe con specialisti raccolti in “serbatoi di pensiero” governativi o di partito.

Ciò dipende anche dal fatto che essa è sempre più minacciata dalla scarsità di risorse da ridistribuire, sia materiali che simboliche. Il loro prosciugarsi − entro un orizzonte d’aspettative sociali decrescenti − viene surrogato da un pathos ipercompensativo di partecipazione mimetica alla vita pubblica, da un’inflazione di sceneggiature, psicodrammi e messaggi politici sopra le righe. Azzarderei pertanto l’ipotesi secondo cui gli elementi spettacolari tendono, in questo caso, a crescere in proporzione diretta all’aumento delle difficoltà da superare. Si possono cioè considerare gli ingredienti di teatralità fine a se stessi, puramente emotivi, in parte come sostituti di azioni efficaci e, in parte, come pubblici cerimoniali propiziatori. Certo, nessuna politica si riduce a teatralità, per quanto non si riesca a farne a meno. Il populismo è nefasto proprio perché la politica a “uso esterno” prevale sulla soluzione coraggiosa dei problemi. Ma quale politico è disposto a fare a meno di un consenso più facilmente acquisibile?

Non è agevole contrapporre a questa passività, che è alla base del conformismo di massa, il modello di democrazia partecipativa. Come già osservava Bobbio, per diverse ragioni esso ha oggi poche possibilità di essere accolto: perché in società complesse come le nostre, i cittadini sono giudici poco informati sui loro stessi interessi; perché la politica ha costi altissimi e può essere esercitata efficacemente solo da chi possiede o è in grado di procurarsi ingenti mezzi finanziari e di godere di estese reti di influenza; perché i poteri occulti condizionano le scelte palesi; perché il pluralismo confina con il corporativismo o, addirittura, con una moderna versione del feudalesimo; perché, infine, dove prevale l’individualismo di massa la visione dell’interesse generale è sempre più lontana dall’essere perspicua. Sarebbe già molto, come sostiene un allievo di Bobbio, Michelangelo Bovero, se essa non degenerasse nel “governo dei peggiori”, la “cachistocrazia” o se le oligarchie venissero, almeno in parte, erose e messe allo scoperto (senza confondere élites e oligarchie). Per evitare che la democrazia diventi un involucro vuoto o appaia come una conquista scontata dimenticando le aspre lotte per la sua conquista e il suo mantenimento, occorre prendere sul serio i motivi della disaffezione nei suoi riguardi, scoprendo tuttavia al loro interno anche il simultaneo, silenzioso appello al compimento di alcune delle promesse inevase.

Eventuali vie d’uscita dalle sue difficoltà devono dunque passare attraverso gli interstizi delle aspirazioni dei cittadini (come il bisogno di identità e di speranza che il populismo a suo modo soddisfa, o di eguaglianza come correttivo degli effetti perversi della lotteria naturale e sociale e come articolazione con il merito all’interno dell’economia di mercato) e la messa in opera di contrappesi alla concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo (dovuta anche all’accresciuta necessità di decisioni rapide nel contesto della globalizzazione). Solo così si potranno contrastare la fuga dalla politica, l’attrazione del populismo e il conformismo di massa.

Sostiene che il mondo è sempre più diviso tra la retorica del giovanilismo e una miope gerontocrazia. Da dove bisogna iniziare al fine di reintrodurre l’età di mezzo, quale espressione, a suo parere, di responsabilità generazionale?

Riformulerei così la domanda: Come rendere i giovani e i vecchi più responsabili anche in modo da trasmettere alle generazioni future una società più giusta? Non sarà certo sufficiente armarci di valori etici più coerenti e tenaci per far fronte ai rischi che il futuro ha in serbo. Il senso di responsabilità, la fermezza, il coraggio, la propensione al rischio ponderato, l’attribuzione di dignità e diritti a ogni essere umano, potranno, tuttavia, non solo fornire strumenti per muoverci in uno scenario mondiale sempre più coinvolgente, per selezionare in modo adeguato i desideri e i piani di vita individuali, ma anche per predisporre gli anticorpi necessari a resistere al richiamo di nuove violente o seducenti mitologie. Ma, senza il loro radicamento e la trasformazione dei principi morali in istituzioni politiche giuridiche, la loro efficacia sarà lasciata alla buona volontà dei singoli. Questo accade sempre meno nel rapporto di solidarietà intergenerazionali, dove la presenza pubblica dello Stato sociale o del Welfare sta diminuendo e lascia sempre più spazio alla famiglia in cui nonni e padri sostengono con i loro salari (e pensioni) giovani senza lavoro che stanno a casa fino a oltre i trenta’anni.

Un peso determinante ha avuto, specie sulla disoccupazione giovanile, la recente crisi finanziaria del 2007-2008, che sembra più strutturale che congiunturale e che ha mostrato, nello stesso tempo, i limiti e la capacità adattativi del capitalismo. Al di là della sua resilienza attraverso cicli di “distruzione creativa”, al capitalismo, proprio secondo Schumpeter, i pericoli potrebbero paradossalmente derivare non tanto dai suoi fallimenti, quanto dai suoi successi. Minando le istituzioni sociali che lo sorreggono, incrinando i vincoli di solidarietà che caratterizzano i rapporti tra Stato e cittadino, tali buoni risultati sono “inevitabilmente” destinati a creare le condizioni secondo il criterio della lunga durata, che mette in rilievo differenze macroscopiche, condizioni in cui esso non sarà più in grado di sopravvivere.

Una filosofia del «limite» che strumenti ermeneutici e teorico-politici deve impiegare in un contesto multiculturale oramai in alta tensione?

Quando, per un eccesso di multiculturalismo, è stato permesso alle donne indiane ciò che nella stessa India non è stato mai permesso, ossia di abortire in ritardo, dopo che si è visto attraverso l’ecografia il sesso del nascituro, su ottomila casi, settemilanovecentonovantasei sono aborti di femmine e quattro, aggiungo, sono un errore. Questo esempio mostra come si debbano porre dei limiti a chi giunge da noi con altre culture, consentendo loro la libertà di culto e di pensiero, ma negando loro, oltre che, ovviamente, la propagazione violenta del proprio credo, l’asservimento della donna o la poligamia. La sfida della convivenza è, anche qui, seria e bisognerebbe avere un doppio coraggio: da un lato, non lasciarsi intimidire dall’aggressività e dalla chiusura in se stesse di molte culture con cui si viene a contatto (a carattere ‘adolescenziale’, caratterizzate spesso da un negativismo e da un eccesso di legittima difesa, tipico di identità ancora fragili), le quali, proprio perché posseggono identità deboli, sono le meno disposte a negoziarle; dall’altro, guardare al lato oscuro del nostro universalismo, ascoltando le voci altrui e domandandoci dove potrebbe aver torto. I particolarismi e i ‘fondamentalismi’ nascono infatti soprattutto all’interno dei popoli e dei gruppi che sono stati esclusi dal “banchetto dell’universalismo” e che perciò rifiutano o diffidano di un gioco in cui sono abituati a perdere sempre. E ciò avviene non solo nelle periferie del pianeta, ma nel suo centro politico, come si evince dal progressivo fallimento delle politiche di integrazione, del melting pot in una società multiculturale per eccellenza, come quella degli Stati Uniti. Sull’universalismo a senso unico e sulle complementari reazioni di rigetto che esso provoca occorrerebbe interrogarsi a fondo. Si rischia altrimenti di rinfocolare i bigottismi e i parrocchialismi dei cosiddetti movimenti particolaristici, fondamentalisti o separatisti (sino a giungere alle ridicolaggini linguistiche di certe frange del femminismo estremista americano, secondo il quale bisognerebbe dire non solo, His-tory, ma anche Her-story).

La convivenza è tuttavia possibile, ma in forme nuove che devono essere trovate e applicate. Altre fedi o altre morali − come quella stoica − hanno diffuso l’dea dell’unità del genere umano, per cui nessun uomo è in realtà uno straniero, da escludere dalla comunità. Molti imperi e molti Stati hanno avuto natura multinazionale: da quello romano a quello austro-ungarico, da Bisanzio all’Unione Sovietica. Ciò li ha resi più tolleranti verso l’alterità, ma non ha potuto cancellare i confini tra inclusione ed esclusione. Li ha solo spostati, distinguendo tra lealtà o slealtà verso l’imperatore o verso lo Stato, fedeltà o infedeltà, devozione o meno alla causa. Oggi la convivenza, soprattutto sul piano delle tradizioni e della religione, dovrebbe essere impostata sul criterio fondamentale della pluralità delle posizioni e delle fedi che nessuno deve imporre con la forza o, in certi casi, a semplici colpi di maggioranze parlamentari.

Soprattutto, per evitare i conflitti a base religiosa (reale o apparente) occorre capire che le fedi non si riducono a meri apparati dottrinali o rituali: nel corso dei millenni s’intrecciano con tradizioni e forme di vita da cui è arduo scorporarle. Uno dei motivi più forti dell’ostilità mostrata in diversi paesi nei confronti dell’Occidente non dipende tanto dalla sua professione del Credo cristiano, quanto dal fatto che la diffusione dei suoi stili di vita (anche attraverso il cinema e a televisione) minaccia consolidate gerarchie sociali, mettendo, ad esempio, in discussione il ruolo subordinato della donna. Bisogna, con amarezza, riconoscere che a livello planetario non si è ancora presa piena coscienza di quanto − già nel Cinquecento, ai tempi delle guerre di religione in Francia − sosteneva Michel de l’Hôpital: “non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme”.

* MICROMEGA, 6 settembre 2016


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