Il tentativo di Maurizio Ferraris di tornare al principio di una realtà esistente in sé è solo il prodotto di un pensiero autopromozionale
di Guido Vitiello (Corriere La Lettura, 26.05.2013)
Ecco, in una formula, il provincialismo italiano: doppiamo tutti i film americani, perché non sappiamo l’inglese, ma il titolo lo lasciamo nella lingua originale, perché suona meglio. La regola non vale solo per il cinema. Prendiamo il caso di Maurizio Ferraris e della sua creatura filosofica, il New Realism. Battezzarlo «nuovo realismo» non avrebbe avuto lo stesso effetto, così come uno striptease è più allettante di uno spogliarello. Tutto sta a scoprire (già che siamo in tema) quali grazie nasconde la veste esterofila del New Realism. Ebbene, rispondono gli autori del pamphlet Il nuovo realismo è un populismo (il melangolo): sotto l’etichetta non c’è niente.
Procediamo con ordine. Nell’agosto del 2011, su «Repubblica», Ferraris lancia il Manifesto del New Realism, a cui seguono convegni, libri e controversie giornalistiche. L’operazione è ambiziosa: si tratta di tornare a un’idea forte di realtà accantonando i giochi ermeneutici della filosofia postmoderna, che ha spinto al parossismo il principio di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Doveva essere, quella postmoderna, una filosofia liberatrice, una sfida alla tirannia della verità oggettiva, e invece ci siamo ritrovati, dice Ferraris, con i populismi mediatici che plasmano la realtà a piacimento, con il Berlusconi della nipote di Mubarak e il Bush delle armi di distruzione di massa. Il New Realism ci ricorda, con il vecchio proverbio, che «i fatti hanno la testa dura», e non vuole essere neppure una nuova corrente filosofica, ma la fotografia di una (contro)tendenza in atto, o meglio, dice Ferraris parafrasando Marx ed Engels, di uno spettro che si aggira per l’Europa.
I sei autori del pamphlet, curato da Donatella Di Cesare, Corrado Ocone e Simone Regazzoni, ironizzano sulla forma plumbea e démodé del manifesto, ma dal loro libro, se volessero, potrebbero ricavare un anti-manifesto suddiviso per capi d’accusa. Elenchiamoli. Primo punto: nessuno spettro si aggira per l’Europa, e neppure per l’America. Se si menzionasse il New Realism a Berlino o a New York, scherza Di Cesare, «per tutta risposta ci si sentirebbe fare i nomi di Rossellini e di Germi»: lo scambierebbero per il neorealismo, e chiederebbero i sottotitoli. Ai filosofi del mondo non giunge eco del nostro piccolo dibattito alla provincia dell’impero, e quella che Ferraris presenta abilmente come la grande tendenza del tempo presente ha in realtà un solo esponente di spicco: Maurizio Ferraris.
Questo ci porta al secondo punto: il New Realism è un’operazione di marketing filosofico, è un brand che serve a smerciare una posizione vecchia di secoli (il realismo, appunto) a fini di egemonia personale. Corrado Ocone rivede in Ferraris lo stile «autopromozionale» del suo maestro Vattimo, che trent’anni prima aveva saputo imporre la moda del pensiero debole. Ma con una differenza, che ci porta al terzo capo d’accusa: malgrado il suo richiamo ai fatti, Ferraris ricorre alle più disinvolte interpretazioni per foggiare l’immagine caricaturale del «postmoderno filosofico», un monolite oscurantista ostile alla realtà e alla ragione, e soprattutto una testa di turco contro cui averla vinta facile.
Ma perché l’operazione ha avuto tanta eco su «Repubblica»? È il quarto punto: perché si sposava a meraviglia con la linea politica del giornale. In sostanza il New Realism, scrive impietosamente Simone Regazzoni, «è una piccola filosofia giornalistica cresciuta all’ombra del berlusconismo», e Ferraris ha compiuto un salto mortale «dalla decostruzione di Derrida alla Scomparsa dei fatti di Marco Travaglio». Ricapitolando: il nuovo realismo è un provincialismo, un narcisismo, un illusionismo e un antiberlusconismo. Ed è, recita il titolo, un populismo, ossia «una banalizzazione del pensiero che mira a riscuotere il consenso del vasto pubblico».
Vasto pubblico? Qui gli autori rischiano di dimenticare quanto sia irrisoria l’incidenza dei filosofi, realisti o meno, sul mondo reale (ci permettiamo di aggiungere: grazie al cielo). «Populismo filosofico» è quasi un ossimoro, e così come non è stato Vattimo a inaugurare la società dell’immagine, così non sarà Ferraris a seppellirla. Perché è vero che Umberto Eco, arruolato anch’egli tra i «nuovi realisti», la sera non ha tempo per il bunga bunga perché legge Kant. Ma è anche improbabile, come scrive Laura Cervellione nel suo spiritoso saggio, «che Berlusconi tenga i libri di Baudrillard sul comodino».