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STORIA DELLA FILOSOFIA: NEW REALISM o, che è lo stesso, NEW IDEALISM. Dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Foucault ...

"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO). Una nota sul tema - di Federico La Sala

(...) in Europa come nel mondo, ciò che oggi si aggira sempre più forte è il programma di Kant (come di Marx e dello stesso Lenin), il coraggio di sapere e l’uscita dallo stato di minorità (...)
martedì 13 settembre 2011
[...] Ferraris aspira a proporsi - visto che "al posto di individui maturi s’avanzan strani bambocci: adulti mostruosi e mai cresciuti che prendono la vita come un grande gioco, una parodia dei trastulli dei più piccoli"
(Francesco Cataluccio) - come il teorico e il teologo dell’Immaturità di massa e ... del berluscattolicesimo aggressivo e galoppante? Boh?! E Bah?! "Con nostalgia e rispetto, ma anche senza nasconderne le debolezze, le macchinosità, i cetrioli e le Trabant", Goodbye (...)

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> "NUOVO REALISMO" ---- Deboli e forti. Cari filosofi, non idolatrate la scienza.Il dubbio è essenziale per la conoscenza (di Nicla Vassallo).

venerdì 9 settembre 2011

Deboli e forti

Cari filosofi, non idolatrate la scienza

Il match estivo traFerraris,Vattimo eSeverino sul “nuovorealismo”nasconde troppe concessioni allo scientismo.

Il dubbio è essenziale per la conoscenza

di Nicla Vassallo (il Fatto. 09.09.2011)

IL COSIDDETTO “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente “pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”, “oggettività”, “nichilismo”, “post-moderno”, “senso comune”, “valori”, e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a proposito.

Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che consente di sposare (per esempio) la neuro-filosofia, senza saper quasi nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora, a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo. Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo, consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla, misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a tutte le imprese conoscitive.

Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che spaccia teorie scientifiche (pure pseudo-scientifiche, con pseudo-scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a proposito dei pseudo-filosofi) per verità incontrovertibili dalle giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze, progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele, nell’aspirare alla conoscenza.

Saggiamolo noi stessi con un “esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la democrazia, insieme all’autorevolezza - a ognuno il proprio lavoro, con coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques Derrida “il n’y a pas de hors-texte”, sempre che si disponga delle competenze.

Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza. Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione scientifica inclusa, risulti “theory-laden”.


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