Inviare un messaggio

In risposta a:
ABITARE LA TERRA. In cammino verso l’Eden, il paradiso terrestre, o verso l’inferno terrestre? Il tema della casa nell’immaginario statunitense ....

AMERICAN DREAM. La crisi del sogno americano. Un saggio (con un’analisi del romanzo di Robert Marasco, "Burnt Offerings") di Mariantonietta Rasulo - a c. di Federico La Sala

“L’intero destino dell’America è contenuto nel primo puritano che sbarcò in America...” Sono queste le parole che Alexis de Tocqueville scrisse durante il suo celebre viaggio negli Stati Uniti
mercoledì 14 settembre 2011 di Federico La Sala
Il mito del Sogno Americano ha permesso la creazione di una società che aspira alla perfezione e che trova nel suburb, il quartiere residenziale, la sua realizzazione più significativa. Per questo osserveremo da vicino la cittadina di Levittown (Long Island), la prima forma di suburb costruita con l’intento di realizzare un nuovo ideale di vita familiare tale da rendere la casa un luogo sacro dal valore inestimabile. La metafora architettonica di Levittown, mutuata dal modello puritano, servirà alla nostra analisi per individuare il simbolo maggiormente tangibile dell’American Dream: la proprietà, la casa come possesso e sfoggio di benessere. (...) il romanzo Burnt Offerings, rappresenta uno dei più significativi esempi di trasposizione della Haunted House Formula come metafora dei problemi sociali ed economici dell’America degli anni Settanta

In risposta a:

> AMERICAN DREAM. --- E SPRINGSTEEN. «Badlands» (A. Portelli). Le eterogenee radici musicali di un performer artist che punta l’indice contro chi ha provato a seppellire l’«American dream» in nome degli interessi Usa.

giovedì 24 settembre 2015

Il patriottismo working class ha il suo Boss

      • Saggi. «Badlands» di Alessandro Portelli per Donzelli. Le eterogenee radici musicali di un performer artist che punta l’indice contro chi ha provato a seppellire l’«American dream» in nome degli interessi Usa. Un appassionato e appassionante libro sul forte legame di Bruce Springsteen con la società e la cultura pop americana

di Andrea Colombo (il manifesto, 16.09.2015)

È una star più con­tro­versa di quel che sem­bri, mr. Bruce Spring­steen. Mol­tis­simi lo ado­rano, ma non sono pochi nep­pure quelli che ne pen­sano più o meno tutto il male pos­si­bile, e spesso sono pro­prio i più appas­sio­nati di musica a stor­cere il naso. Hanno qual­che buon argo­mento dalla loro. Spring­steen non è un musi­ci­sta ecce­zio­nale come Van Mor­ri­son o un inno­va­tore geniale come Phil Spec­tor, i suoi testi non hanno la potenza ine­gua­gliata di quelli di Dylan, le sue can­zoni non van­tano la con­nes­sione pro­fonda con l’animo di un intero popolo che tra­sforma i capo­la­vori folk di Woody Guth­rie in clas­sici senza tempo e quasi senza autore, voci di un popolo. Solo per citare gli autori che più di ogni altro hanno influen­zato Spring­steen dai punti di vista, rispet­ti­va­mente, dell’impostazione vocale, dell’orchestrazione, della poe­tica e della mis­sione sociale.

Allora per­ché, nono­stante tutto, Bruce Spring­steen è un musi­ci­sta e un autore del tutto degno di reg­gere il para­gone con que­sti giganti, e per certi versi per­sino più signi­fi­ca­tivo di tutti loro, Dylan escluso? Una rispo­sta aiuta a tro­varla Bad­lands. Spring­steen e l’America: il lavoro, i sogni (Don­zelli, pp. 216, euro 25), il volume appena dedi­cato all’opera del «Jer­sey Devil» da un San­dro Por­telli par­ti­co­lar­mente ispi­rato. Un libro che è anche una dichia­ra­zione d’amore, e che pro­prio in virtù di quella pas­sione, la stessa che anima gli ado­le­scenti alla sco­perta dei loro primi dischi, sfugge alla minac­cia sem­pre incom­bente quando l’accademia si occupa di cul­tura popo­lare e di massa: quella dell’erudizione devitalizzante. Il sogno infranto

All’interno di un impianto giu­sta­mente poco strut­tu­rato, dis­se­zio­nando i testi e alter­nando l’analisi degli stessi con rapidi flash di espe­rienze dirette tutte in un modo o nell’altro legate all’oggetto del suo stu­dio, San­dro Por­telli col­loca l’opera di Spring­steen all’incrocio di due tema­ti­che por­tanti, che for­mano quasi per intero l’essenza dell’universo spring­steee­niano: il sogno ame­ri­cano e il lavoro. Non c’è modo di sepa­rare il roc­ker born in the Usa dall’Ame­ri­can Dream, in tutte le sue diverse sfac­cet­ta­ture. Ma è un sogno ame­ri­cano colto nel momento del declino, vis­suto e rim­pianto e inse­guito di nuovo pro­prio quando per la prima volta si dis­solve la sua anima più intima e se ne inceppa il motore: la mobi­lità sociale, la cer­tezza che per i figli la vita sarà comun­que migliore che per i genitori.

Ugual­mente quel sogno Bruce Spring­steen non prova mai a sman­tel­larlo, la ten­ta­zione di demi­sti­fi­carlo nep­pure lo sfiora. Lo riven­dica, anzi, e lo invoca . Anche per que­sto Jim Cul­len , in uno dei primi e migliori studi sulla rock­star di Free­hold (fre­quen­te­mente citato anche da Por­telli), lo indica come erede della grande tra­di­zione repub­bli­cana, sia pure nella cor­rente oppo­sta a quella di Rea­gan o della stirpe dei Bush.

Il rap­porto di Bruce Spring­steen con il patriot­ti­smo e la ban­diera a stelle e stri­sce, segnala giu­sta­mente Por­telli, è più com­plesso di quanto possa sem­brare al radi­ca­li­smo ita­liano, con tutte le sue tare di inge­nuo e mani­cheo ideo­lo­gi­smo. Spring­steen, come del resto lo stesso Woody Guth­rie, è intriso di spi­rito patriot­tico. Quando cri­tica l’America lo fa in nome dell’America e di quel «vero» sogno ame­ri­cano che è stato tra­dito ma non ucciso né dimen­ti­cato. Il famoso ten­ta­tivo rea­ga­niano di appro­priarsi di Spring­steen, negli anni Ottanta, era una spu­do­rata fal­si­fi­ca­zione, ma imma­gi­nar­selo come una spe­cie di mili­tante anti-americano è altret­tanto falso, e forse anche di più. Il mito della libera comunità

L’altro ver­sante fon­da­men­tale dell’American Dream, quello della mobi­lità non sociale ma spa­ziale, è ancor più pre­sente, sin dai primi testi di Spring­steen. Però, nota Por­telli, con uno scarto fon­da­men­tale rispetto alla mito­lo­gia clas­sica d’America: i pro­ta­go­ni­sti di que­ste can­zoni non se ne vanno mai da soli verso l’orizzonte. Par­tono, o sognano di farlo, in cop­pia, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna, un «noi» che apre la strada al Spring­steen più recente e lo anti­cipa, a quel We Take Care of our Own, che si allon­tana dal mito soli­ta­rio dell’eroe ame­ri­cano ma solo per avvi­ci­narsi a quello, altret­tanto fon­da­tivo della libera comu­nità che «si prende cura di se stessa».

Quello da cui i per­so­naggi di Spring­steen fug­gono è il lavoro. Onni­pre­sente nelle can­zoni gio­va­nili di Spring­steen ma anche, sia pure in forme diverse, in quelle mature, il lavoro era il grande rimosso del rock’n’roll, dice Por­telli: ciò che non si poteva nomi­nare nei dischi che face­vano bal­lare e impaz­zire i teens dei Cin­quanta e Sessanta.

Bruce Spring­steen viola il tabù: lo spo­sta la cen­tro del suo mondo, nella stessa posta­zione che occupa nelle vite dei suoi per­so­naggi e del suo pub­blico. Gente che sbarca il luna­rio facendo lavori unin­spi­ring, come li defi­ni­sce Por­telli citando la strofa aggiunta da Bruce alla Jer­sey Girl di Tom Waits, jobs e non careers come pre­fe­ri­sce spe­ci­fi­care Jim Cul­len: quei lavori, primo fra tutti quello di fab­brica, che non ti danno niente se non quat­tro soldi per soprav­vi­vere a stento, che ti svuo­tano la vita invece di riem­pirla e che tut­ta­via sono sem­pre meglio della disoc­cu­pa­zione che distrugge le esi­stenze e gli amori di tanti altri pro­ta­go­ni­sti di que­ste canzoni.

Ma è lavoro anche quello che ven­gono a cer­care i migranti di Ghost of Tom Joad e di Devils and Dust, ed è lavoro, aggiunge Por­telli, farsi il mazzo sul palco quat­tro ore ogni sera sfi­dando il pub­blico a chi regge di più. Genea­lo­gie operaie

Quello di Spring­steen, ideal­mente, è il lavoro che dà dignità, che dovrebbe essere per tutti quel che era per mamma Zirilli in The Wish, quello che offriva orgo­glio e iden­tità per­sino agli ope­rai dell’inferno side­rur­gico di Young­stown. Quando ancora c’era. Bruce ci crede, come crede nell’ame­ri­can dream, ma è la stessa fede colma di di rim­pianto per qual­cosa che non c’è più.

Quello di Bruce Spring­steen viene defi­nito spesso come un «rock maturo», pro­prio per la capa­cità di par­lare, per empa­tia e genea­lo­gia ope­raia se non per espe­rienza diretta, delle vite reali di chi lo ascolta. Que­sto, sot­to­li­nea l’autore, è comune nel coun­try. Non nel rock’n’roll, la cui mis­sione era in realtà oppo­sta: spez­zare le catene della realtà di ogni giorno con un impeto di pura ener­gia, roman­tica o festosa oppure, spesso, rab­biosa, ma sem­pre incom­pa­ti­bile con wor­king life.

Rispetto a quella tra­di­zione Bruce Spring­steen rap­pre­senta la mas­sima ere­sia, per­ché mette al cen­tro pro­prio ciò che andava dimen­ti­cato, e la mas­sima orto­dos­sia, per­ché di quella mede­sima ener­gia ado­le­scen­ziale fa l’antidodo in grado di con­tra­stare il declino non solo del sogno ame­ri­cano ma della capa­cità di sognare in gene­rale, il for­ti­li­zio ine­spu­gnato di una fede che, limi­tando la let­tura ai testi, non avrebbe quasi più pos­si­bi­lità di resistere.

Oltre il muro del suono

Anche se quello di Por­telli è soprat­tutto uno stu­dio sui testi, l’autore non manca di sot­to­li­neare come spesso le parole e la musica viag­gino in dire­zioni con­tra­stanti, con il ritmo tirato che con­trad­dice la mesti­zia della sto­ria: basti pen­sare alla distanza tra la ver­sione ori­gi­na­ria e acu­stica di Born in the Usa e la sua tra­sfor­ma­zione in sin troppo trion­fale inno rock.

Sprig­steen, poi, non è solo musica e parole: è anche, forse soprat­tutto, un per­for­mer artist e le sue lun­ghis­sime, tra­sci­nanti per­fo­man­ces non sono mai solo con­certi ma ceri­mo­niali col­let­tivi di cui l’artista è l’officiante, ani­ma­tore di feste il cui obiet­tivo non è più esor­ciz­zare o far dimen­ti­care la realtà delle vite comuni ma rico­no­scerla e cio­no­no­stante spin­gere a non far­sene pie­gare gra­zie alla stessa fede e alla stessa ener­gia che il rock’n’roll ha rega­lato agli ado­le­scenti per decenni.

Per que­sto fa con­fluire tutto e tutti, la visio­na­rietà di Dylan, l’impegno di Guth­rie, il «muro del suono» di Spec­tor in quell’oceano che per Spring­steen, e non solo per lui, è ancora Elvis Preslyy.

Prima di lui non lo aveva fatto nes­suno. Come lui, nes­suno è in grado di farlo. Sarà abba­stanza per defi­nirlo uno dei gran­dis­simi della musica popo­lare ame­ri­cana e non solo americana?


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: