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AMERICAN DREAM. La crisi del sogno americano. Un saggio (con un’analisi del romanzo di Robert Marasco, "Burnt Offerings") di Mariantonietta Rasulo - a c. di Federico La Sala

“L’intero destino dell’America è contenuto nel primo puritano che sbarcò in America...” Sono queste le parole che Alexis de Tocqueville scrisse durante il suo celebre viaggio negli Stati Uniti
mercoledì 14 settembre 2011 di Federico La Sala
Il mito del Sogno Americano ha permesso la creazione di una società che aspira alla perfezione e che trova nel suburb, il quartiere residenziale, la sua realizzazione più significativa. Per questo osserveremo da vicino la cittadina di Levittown (Long Island), la prima forma di suburb costruita con l’intento di realizzare un nuovo ideale di vita familiare tale da rendere la casa un luogo sacro dal valore inestimabile. La metafora architettonica di Levittown, mutuata dal modello puritano, servirà alla nostra analisi per individuare il simbolo maggiormente tangibile dell’American Dream: la proprietà, la casa come possesso e sfoggio di benessere. (...) il romanzo Burnt Offerings, rappresenta uno dei più significativi esempi di trasposizione della Haunted House Formula come metafora dei problemi sociali ed economici dell’America degli anni Settanta

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> AMERICAN DREAM. -- Philip Roth (1933 - 2018). Sferzò il sogno americano. "Pastorale americana": un capolavoro assoluto, un romanzo che offre un ritratto acutissimo e amaro della società americana.

giovedì 24 maggio 2018

Sferzò il sogno americano

Il Nobel non se ne accorse

di Paolo Bertinetti (La Stampa, 24.05.2018)

A Philip Roth, morto ieri all’età di 85 anni, il Premio Nobel avrebbero dovuto darlo almeno venti anni fa, dopo l’assegnazione dal Premio Pulitzer per Pastorale americana: un capolavoro assoluto, un romanzo che offre un ritratto acutissimo e amaro della società americana, dagli anni del dopoguerra fino a quelli del Vietnam, dalle illusioni e dalle follie della giovane generazione anti-sistema alle illusioni e alle sconfitte di quella uscita dalla guerra. Una generazione che spronata dal clima di esaltazione collettiva che si affermò dopo la fine del conflitto (e dei sacrifici) si lanciò con convinzione ed entusiasmo nella costruzione di un’America più ricca e più grande che mai; e che dopo, come nel caso del suo protagonista, si ritrovò a dover nascondere i fallimenti dietro la facciata del benessere. È in questo romanzo che Roth ha raggiunto il vertice della sua produzione letteraria.

Roth era nato a Newark nel 1933. Suo padre, Herman Roth, figlio di ebrei emigrati negli Stati Uniti dalla Galizia, era un esponente di spicco della comunità ebraica che popolava il quartiere di Newark chiamato Weequahic. Il quartiere e la scuola stessa di Weequahic dove si era diplomato nel 1950 sono stati lo sfondo di molti dei suoi romanzi. Più che lo sfondo: sono stati il terreno fecondo su cui ha fatto crescere la sua invenzione romanzesca, trasformando nei personaggi della finzione, nelle loro vicende, nei loro dilemmi quanto aveva osservato nei suoi anni di formazione.

Questo avvenne tuttavia in un secondo tempo, anche se l’identità ebraica è centrale già nei suoi primi lavori. Ma come oggetto di satira, tant’è vero che il lavoro d’esordio, Goodbye Columbus, gli valse l’etichetta di «ebreo che odiava se stesso per il fatto di essere ebreo». L’accusa, accompagnata dallo scandalo, fu ampiamente rinnovata in occasione della pubblicazione nel 1969 del Lamento di Portnoy, uno dei libri più osceni, scrisse il New Yorker, «che mai siano stati pubblicati».

Ma quello che Roth voleva rappresentare era la rivolta della sua generazione contro il perbenismo repressivo dell’ambiente familiare. Alexander Portnoy, un nevrotico giovanotto di Weequahic, ricorre alle cure di uno psicanalista. Il romanzo è il suo monologo sul lettino del terapeuta: una scelta formale brillante, che consente a Roth di sbizzarrirsi in un parlato di irresistibile vivacità - e comicità.

Portnoy non parlava solo della giovane generazione ebraica; ma di tutta quella generazione, e non solo quella americana. Anche per questo fu un successo strepitoso, tanto in Europa quanto in America. Ma fu anche motivo di attacchi durissimi contro Roth, che decise di defilarsi. Nel 1972 si recò a Praga per «rendere omaggio» a Kafka; e al suo ritorno a New York si dedicò allo studio del ceco e alla frequentazione della comunità ceca, prendendo le distanze dall’ambiente letterario newyorchese.

In seguito si trasferì a Londra, insieme all’attrice Claire Bloom (che sposò più tardi), dove trascorse sei mesi all’anno fino al 1989, quando tornò in America per essere vicino al padre gravemente malato. I romanzi più notevoli degli anni londinesi sono quelli che hanno come protagonista lo scrittore Nathan Zuckerman, il suo alter ego: Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, La lezione di anatomia e il postmoderno La controvita. Il vertice della sua produzione romanzesca giunse però più tardi, con la trilogia in cui, a partire dalla rivisitazione della sua città natale, delle sue strutture sociali e dei suoi rapporti famigliari al loro interno, seppe offrire una riflessione sull’America del dopoguerra (e sulla sua Storia) che parla non solo agli americani, ma anche a tutti noi.

Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana compongono una trilogia che affronta temi centrali della realtà americana, la guerra in Vietnam, il maccartismo, la discriminazione razziale, attraverso una scrittura diventata molto più asciutta di quella dei primi lavori ma capace di improvvise impennate liriche, molto «costruita» ma al tempo stesso piena delle cadenze dell’oralità. Anche in seguito, soprattutto in Indignazione e in Il complotto contro l’America, che alcuni considerano un’anticipazione dell’era Trump, Roth seppe riproporci i nodi della Storia attraverso le sue storie, da grande maestro di linguaggio e di invenzione romanzesca.
-  Il Nobel non glielo hanno dato. Peggio per il Nobel.


Il nichilista che svelò l’America

Ossessionato dalla caducità della vita umana e dalle sue contraddizioni, per raccontare le sue storie partiva sempre dall’io. E dalla cucina di casa

di Alessandro Piperno (Corriere della Sera, 24.05.2018)

Philip Roth - insieme a un paio di scrittori morti secoli fa - è l’individuo che non conosco con cui ho passato più tempo in tutta la mia vita. Lo frequento da quando arrampicandomi sulla libreria dei miei genitori in salotto, su su fino all’ultimo scaffale zeppo di romanzi proibiti, misi le mani sul Lamento di Portnoy . Allora scoprii che tre anni prima della mia nascita qualcuno aveva saputo parlare del cuore nero dell’adolescenza in un modo che nessuno (neanche il compagno di classe più intraprendente e sboccato) avrebbe potuto eguagliare.

Da allora ho recuperato dapprima i romanzi dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta mal editati (almeno in Italia) e così sfortunati, per poi lasciarmi andare sempre più sbigottito alla gigantesca, stupefacente resurrezione che, per dirla con Coetzee, ha sfiorato «vette shakespeariane» tra il ’95 e il ’97, quando Roth diede alle stampe Il teatro di Sabbath e Pastorale americana, ovvero quanto di più toccante e ambizioso uno scrittore abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo.

Ieri mattina mentre si diffondeva la notizia della sua morte - preso dal sentimentalismo corrivo e melenso che ogni tanto ci illanguidisce i cuori e di cui subito ci vergogniamo - ho mandato un messaggio a un amico con cui da lustri condivido l’idolatria rothiana: «Gli avevo a stento perdonato la decisione di non scrivere più, ma questo?». La risposta, non meno retorica in fondo, mi è sembrata un magnifico epitaffio: «Si finisce per scambiare l’immortalità della carta con l’immortalità della carne».

La beffa è che se c’è un romanziere che non ha scommesso sull’eternità, quello è Philip Roth. Anzi, prevedeva che nel corso di un quarto di secolo i lettori di narrativa si sarebbero assottigliati al punto da ridursi al novero di cultori della poesia latina. Mi auguro che avesse torto - se non altro per la salute del mio conto in banca - ma riconosco in tale affermazione tutto il realismo rothiano, inteso come buon senso della realtà.

Roth appartiene ai rari giganti della letteratura - da Montaigne a Joyce - che non se la sono mai raccontata. Che non hanno mai scambiato la propria dedizione all’arte per una cosa seria e indispensabile per il resto dell’umanità. Che hanno lavorato indefessamente, senza mai illudersi che ciò avrebbe potuto cambiare qualcosa. E lo hanno fatto perché non poteva essere altrimenti. «Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro». Semplice, no? Sì, se hai la carica sexy di Philip Roth, il suo carisma morale, la sua sfrontatezza artistica. Del resto, è difficile spiegare a chi non lo capisce quanto persuasivi, vitali, euforizzanti siano gli inconfondibili giri di frase rothiani, l’eloquenza, la sintassi teatrale, gli avverbi ossessivi e tonitruanti. E i punti interrogativi? Chi altro ha saputo dare un simile lustro alle forme interlocutorie?

Il fatto è che Roth è attratto dalle contraddizioni, e da tutto ciò che è storto e non funziona, è animato dal sospetto che nella vita i conti tornino raramente. In tal senso è un autentico moralista. In uno dei passi più celebri di Pastorale americana scrive: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando».

Era dai tempi di Port Royal che uno scrittore non parlava in modo tanto franco e ossessivo dell’ineluttabilità della morte e della caducità della vita umana. E ciononostante la narrativa di Roth, con tutte le sue divagazioni cimiteriali, i suoi affreschi plumbei, le patologie invalidanti, è gioiosa, come sanno essere gioiose solo le cose belle e le cose vere. Lo so, forse, date le circostanze, sarebbe più saggio e didascalico soffermarsi sull’America, sul sesso, sulla misoginia (che d’altronde io non ho mai riscontrato), sull’onanismo, sull’assimilazione ebraica, sui conflitti etnici, sull’epica e sull’ambizione, insomma sui temi à la page che impreziosiscono la narrativa rothiana; ma si dà il caso che, almeno per me, il cuore dell’opera di Roth sia racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri meno belli: My Life as a Man, la mia vita di uomo. E Dio ha voluto che la sua vita combaciasse con la letteratura, in un matrimonio talmente difficile che a un certo punto Roth ha chiesto il divorzio, appendendo la penna al chiodo. «Anche l’arte è vita» si accalorava con un’intervistatrice di un noto settimanale francese. «Capisce? Isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita».

Ciò che molti detrattori hanno confuso per egotismo altro non è che la constatazione che la sola maniera per scrivere qualcosa di decente è partire da sé, tornare ossessivamente a se stessi, a costo di essere equivocati o vilipesi. Gli alter ego rothiani - Alex Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth stesso con tanto di sosia annessi - non svolgono la stessa funzione degli pseudonimi in Stendhal o degli eteronimi di Pessoa. Roth non li inventa per nascondersi o per reinventarsi. Lo fa per essere ancora più schietto e spietato.

Nell’intervista alla «Paris Review» del 1984 Hermione Lee gli chiede: «Quando scrive in testa ha un lettore in particolare?». La risposta è tanto spiritosa quanto emblematica: «No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-Roth. E penso, come odierà questa cosa. Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno». Non è facile resistere alla tentazione di compiacere il lettore, ma provocarlo deliberatamente è un esercizio ancor più complicato. E tuttavia riuscire a metterlo con le spalle al muro, alle corde, di fronte al suo perbenismo e al suo puritanesimo, può dare gioie impagabili. Ecco un’altra lezione da tenersi stretti.

C’è una cosa piccola di Philip Roth che mi ha sempre sorpreso e intenerito. Se date un’occhiata ai suoi ultimi libri in hardcover - le edizioni americane naturalmente - troverete la sua biografia zeppa di onorificenze che neanche un ambasciatore o un generale pluridecorato. Premi su premi, e tra i più internazionalmente prestigiosi. Ripeto: la cosa mi ha sempre sorpreso e intenerito. Mi dicevo: che te ne fai di questa roba? Sei Philip Roth. Sei tu che dai lustro a quelle bigie istituzioni, non viceversa. Del resto, ho sentito dire che il Nobel mancato fosse un serio problema per lui. Anche questo mi sembra incredibile. Il Nobel? A che ti serve il Nobel? Non ti basta esserti inventato Mickey Sabbath, Drenka Balich e il loro funambolico amore adulterino?

Eppure, pensandoci bene, anche questo esprime al meglio la contraddittorietà di Philip Roth. Immagino che quei riconoscimenti avrebbero riempito di orgoglio i suoi genitori, soprattutto il padre per cui Philip aveva un’autentica venerazione. Roth passa per il grande distruttore delle famiglie, l’accusatore indefesso dell’istituzione patriarcale. È lui ad aver detto: «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È così che stanno davvero le cose? C’è uno scrittore che, nel suo sostanziale ateismo, materialismo, nichilismo, abbia coltivato un culto per gli avi, per i penati, in poche parole per la genealogia familiare più di Philip Roth? A me pare proprio di no.

A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra i fratelli Zuckerman, Henry chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferimento un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?»; Nathan gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».

Ora che la sua vita è finita, che la sua opera è chiusa per sempre, è facile notare come Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a fuggire da quella cucina, e l’altra metà provando a rientrarci. È così che funziona, no? Da ragazzo non pensi che a scappare di casa, da adulto metti in atto i propositi libertari, da vecchio faresti di tutto per tornare all’ovile. Troppo tardi: ogni cosa che ti faceva palpitare e infuriare è venuta meno e ciò che resta parla una lingua aliena.


Philip Roth 1933 - 2018

Rischiò se stesso attraverso i romanzi

Adesso tocca a noi

di Richard Ford (Corriere della Sera, 24.05.2018)

Ho conosciuto Mr. Roth soltanto attraverso i suoi romanzi e i suoi racconti, che ho letto con enorme ammirazione letteralmente attraverso tutta la mia - ormai piuttosto lunga - vita. Era uno scrittore avventuroso, che aveva il coraggio di raccontare e immaginare quelle verità spesso dolorose con le quali non sempre siamo in grado di fare i conti dentro di noi.

Le nostre vite di esseri sessuali, il nostro ruolo nelle nostre famiglie (il ruolo di padre, di figlia), le nostre identità di cittadini della nostra repubblica, la nostra - presunta - identità religiosa. Usò se stesso - come uno scrittore o una scrittrice fanno, quando ne hanno la forza - come cavia umana, per il beneficio altrui.

La mia paura più grande - che sento con forza nel giorno della morte di Mr. Roth - è che questo coraggio, da parte degli scrittori, sia in via d’estinzione, destinato a essere ulteriormente soffocato dalla correttezza politica, dal potere coercitivo del denaro sulle industrie che, storicamente, hanno supportato la scrittura e l’immaginazione, e (specialmente in America, che è stata uno dei grandi argomenti affrontati da Mr. Roth) dai laidi, violenti effetti della censura che scaturisce dall’opportunismo politico.

Roth ha sofferto per aver fatto uso della libertà della sua immaginazione. Spero che noi che restiamo possiamo essere disposti a correre rischi con i nostri libri, proprio come ha fatto lui.


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