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FAUST E MEFISTOFELE: CINEMA (E NON SOLO). VENDERE L’ANIMA AL DIAVOLO: COSA SIGNIFICA, OGGI?

DANTE, GOETHE, E IL "FAUST". ALEXANDER SOKUROV: “Ho visto il Diavolo è solo un usuraio”. Un’intervista di Fulvia Caprara - a c. di Federico La Sala

Il mio Mefistofele non è un diavolo, è un usuraio. Non fa nulla di sovrannaturale. Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata (...)
giovedì 13 ottobre 2011 di Federico La Sala
[...] Una volta ha dichiarato che le piacerebbe girare una versione cinematografica della Divina Commedia. E’ ancora così, e perchè?
«Ci sto pensando da anni. Per noi russi la letteratura europea ha avuto un ruolo fondamentale per la comprensione del "vecchio mondo", ci ha dato l’idea di quella profondità e delle radici del pensiero europeo. Pensare che Dante aveva affrontato temi così profondi già allora, mentre in Russia non avevamo ancora la letteratura come tale... E’ uno dei libri più (...)

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> DANTE, GOETHE, E IL "FAUST". ALEXANDER SOKUROV --- FRANCOFONIA. Il Louvre cuore dei valori europei. Il regista nelle sale del museo parigino tra Napoleone e i fantasmi del nazismo.

mercoledì 16 dicembre 2015

Sokurov e quel viaggio nell’arte

Il Louvre cuore dei valori europei

Il regista nelle sale del museo parigino tra Napoleone e i fantasmi del nazismo

di Paolo Mereghetti (Corriere della Sera, 15.12.2015)

Film saggio, a metà tra la riflessione storica e la privatezza diaristica, dove la cinepresa diventa un’autentica caméra-stylo che mescola formati e percorsi con straordinaria (e affascinante) libertà, questo Francofonia - che nelle intenzioni dichiarate doveva essere un film dedicato al museo parigino del Louvre, un po’ come Arca russa lo era stato sull’Ermitage di San Pietroburgo - nasconde dentro di sé suggestioni che si svelano allo spettatore a ogni visione.

A Venezia, dove il film era stato presentato e dimenticato dalla giuria (perché Sokurov aveva già vinto un Leone d’oro nel 2011 con Faust) mi aveva colpito l’intreccio di stili, di tempi e di toni, quasi una specie di prolungamento più articolato e concreto delle «elegie» girate a cavallo degli anni Novanta sul dissolvimento di un mondo e dei suoi valori: il Louvre e più in generale l’arte come baluardo della cultura in nome del quale la coerenza personale poteva mettere in discussione anche la fedeltà politica.

Rivisto dopo sei mesi (e dopo l’incrudelirsi degli attacchi dell’Isis ai simboli dell’Occidente), Francofonia rivela una più radicale lettura dell’arte custodita al Louvre e nei musei europei e la difesa di un’idea dichiaratamente occidentale dei valori culturali. «Cosa saremmo senza l’Europa?» si sente all’inizio del film, cui fa eco, più avanti, l’elogio della galleria di ritratti conservata al Louvre, un genere - quello della pittura del volto umano - che solo l’Occidente ha coltivato. E di cui Sokurov sottolinea appunto l’esclusività antropologica e geografica.

Il film, che ha avuto una lunga e tormentata gestazione proprio perché i responsabili del museo parigino hanno faticato ad accettarne la struttura, è costruito intorno a tre «coppie» che dialogano tra di loro e si intrecciano secondo una logica che è più poetica che narrativa: il regista e il capitano di un cargo in navigazione; Napoleone (Vincent Nemeth) e Marianna (Johanna Korthals Altes) che si aggirano per il Louvre; Jacques Jaujard (Louis-Do de Lencquesaing), il direttore del museo parigino al tempo dell’invasione nazista, e Franziskus Wolff-Metternich (Benjamin Utzerath), plenipotenziario del Führer per il Kunstschutz (la «conservazione delle opere d’arte», una dottrina dietro cui si nascondeva l’intenzione di trasportare in Germania i capolavori dei Paesi sconfitti).

Il dialogo tra i primi due, che comunicano attraverso un disturbatissimo videotelefono, riguarda il destino di un cargo su cui sono stati imbarcati i tesori di un museo non ben identificato e che si trovano a sfidare la furia del mare in tempesta: «sballottare l’arte sull’oceano è disumano» dice il capitano, ed è evidente il valore metaforico di queste immagini dove la forza del mare diventa quella della Storia, che si accanisce «senza ragione né pietà».

Per questo a Sokurov interessa Napoleone, perché il suo trionfo servì anche a creare il nucleo principale del museo del Louvre, tra le cui stanze si pavoneggia di fronte a quadri e ritratti, incrociando una timida Marianna che di fronte alle tele declama, non a caso, le parole chiave della democrazia francese: «libertà, uguaglianza, fratellanza». Così, lungo un percorso che privilegia il tema della conservazione/salvataggio delle opere sulla loro fruizione, ecco la ricostruzione degli anni Quaranta, con l’invasione tedesca e il testardo lavoro del direttore del Louvre per salvare le opere del museo dalla guerra e dall’avidità nazista (con l’aiuto di Wolff-Metternich).

Che cosa tiene uniti questi tre piani così diversi? Per Sokurov è l’idea della sacralità dell’opera d’arte e della sua funzione fondativa rispetto alla cultura occidentale, in nome della quale si può morire (ecco il riferimento all’assedio di Leningrado) oppure «tradire» (Jaujard aderì a Petain ma sostenne la Resistenza, Wolff-Metternich ostacolò i gerarchi che volevano spogliare il Louvre) e in cui il regista vede un legame anche con la cultura russa (ecco l’omaggio a Tolstoj e Cechov, «addormentati» cioè inascoltati nel Novecento comunista).

Ne esce un viaggio pieno di fascino ed emozione, tra metafore marinare e ricordi della Storia, dove i musei («cosa sarebbe la Francia senza Louvre?» ci chiede il film) diventano il cuore di una civiltà orgogliosamente occidentale. Forse troppo.


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