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FAUST E MEFISTOFELE: CINEMA (E NON SOLO). VENDERE L’ANIMA AL DIAVOLO: COSA SIGNIFICA, OGGI?

DANTE, GOETHE, E IL "FAUST". ALEXANDER SOKUROV: “Ho visto il Diavolo è solo un usuraio”. Un’intervista di Fulvia Caprara - a c. di Federico La Sala

Il mio Mefistofele non è un diavolo, è un usuraio. Non fa nulla di sovrannaturale. Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata (...)
giovedì 13 ottobre 2011 di Federico La Sala
[...] Una volta ha dichiarato che le piacerebbe girare una versione cinematografica della Divina Commedia. E’ ancora così, e perchè?
«Ci sto pensando da anni. Per noi russi la letteratura europea ha avuto un ruolo fondamentale per la comprensione del "vecchio mondo", ci ha dato l’idea di quella profondità e delle radici del pensiero europeo. Pensare che Dante aveva affrontato temi così profondi già allora, mentre in Russia non avevamo ancora la letteratura come tale... E’ uno dei libri più (...)

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> ALEXANDER SOKUROV. "Francofonia - Il Louvre sotto occupazione" - Il naufragio della bellezza (di Roberto Escobar)

lunedì 21 dicembre 2015

Aleksandr Sokurov

Il naufragio della bellezza

di Roberto Escobar (Il Sole-24 Ore, 20.12.2015)

«Senza ragione e senza pietà», così sono le forze del mare e della storia secondo il narratore di Francofonia - Il Louvre sotto occupazione (Le Louvre sous l’Occupation, Francia, Germania e Olanda, 2015, 88’). Nell’edizione originale, la sua voce accorata è dello stesso Aleksandr Sokurov. Di fronte a un computer, l’autore russo tenta di comunicare con il comandante di un cargo preso in una tempesta. Il collegamento è instabile. Talvolta le immagini si dissolvono sullo schermo, talvolta si interrompe anche il sonoro. Dirk, così si chiama il comandante, si è messo in mare con un carico di container pieni di opere d’arte. Le previsioni del tempo lo avrebbero sconsigliato, e ora anche la ragione e la pietà sono in balìa dell’oceano e della sua furia.

La narrazione di Francofonia è doppia. La sua parte più superficiale riguarda un tempo non lontano. Il 14 giugno 1940 i tedeschi occupano Parigi. Due giorni dopo, il vecchio maresciallo Philippe Pétain guida una Francia alleata della Germania nazista. Su questo sfondo cupo, le sorti del museo sono affidate a due nemici: il conte Franziskus von Wolff Metternich (Benjamin Utzerath), Kunstschutz (curatore d’arte) della Wermacht in Francia, e il curatore del Louvre Jacques Jaujard (Louis-Do de Lencquesaing).

Colto e raffinato, il primo teme al pari del secondo che il museo sia depredato dai gerarchi nazisti. D’accordo con il collega francese, e rischiando, rimanda di anno in anno il trasferimento in patria di quadri e statue. In questo modo, commenta la voce fuori campo, la Germania «rispetta il diritto di esistere della Francia». Non c’è popolo, spiega Sokurov, se non c’è un luogo in cui possa custodire la propria arte. Diverso, continua, è stato il destino dell’Est europeo, dove i nazisti non ebbero alcun rispetto, né per gli esseri umani né per l’arte.

Sotto questo livello narrativo ce n’è poi un secondo ben più radicale, che Sokurov affida ai quadri e alle statue del Louvre. Il suo tempo è indefinito, e sconfinato più di un mare in tempesta. Ogni popolo, argomenta il narratore, è circondato da un oceano, e ogni individuo ha un oceano in sé. Ma noi viviamo «come se l’oceano non ci fosse». Che cos’è la costruzione della bellezza, se non un continuo produrre l’illusione di questo come se? In tale costruzione, azzarda Sokurov, la mano ha preceduto lo spirito: il nostro fare - il nostro dar vita materiale a simulacri “duraturi” di noi stessi - ha anticipato la consapevolezza critica della nostra precarietà.

D’altra parte, anche la nostra bellezza “manufatta” partecipa della furia della storia, come il cargo di Dirk partecipa della tempesta. Ed ecco che, muovendosi per i corridoi e le sale del Louvre, la macchina da presa scopre frammenti di “come se” emersi dal naufragio nel tempo. Un fregio imponente d’un palazzo reale assiro, nel cui marmo è ancora ben viva la paura per il potere, insieme con la paura del potere. O una figura umana in pietra, che dopo novemila anni continua la sua sfida alla precarietà. O la mummia d’un antico egizio avvolto in teli dalla trama fitta: verso la sua mano, fissa nell’illusione dell’eternità, si tende quella guantata di nero di un ufficiale nazista. O ancora, ben più recente, il ritratto di Napoleone che, in un quadro di Paul Delaroche, attraversa le Alpi sopra un asino (o un mulo). Poi, di nuovo lui (Vincent Nemeth), che di fronte alla Gioconda afferma certo: «Questo sono io». E se qui si tratta della megalomania di ogni potente, per il Louvre in genere si tratta di un fatto che l’Empereur, almeno quello di Sokurov, rivendica con orgoglio: perché avrei fatto la guerra, se non per depredare il mondo d’opere d’arte?

E il cargo? Quello naufraga tra i marosi, lasciando che i suoi container sprofondino nell’abisso. La precarietà vince. Né potrebbe essere altrimenti. Alla lunga, la magnifica illusione dei nostri “come se”, anche dei più grandi, niente può contro la tempesta sconfinata del tempo. È questo il più paradossale dei motivi, e il più solido, per averne cura.


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