Il potere in maschera
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 18 ottobre 2011)
Che l’Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: "Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte". Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere.
Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C’è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L’ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.
Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l’attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.
Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su Repubblica, di un colloquio telefonico avvenuto nell’ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: "Mi manda il Capo". Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: "Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere". E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l’impunità: "Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri".
Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un’autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l’appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l’esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l’attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli. La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall’altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l’agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.
Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d’interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n’è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.
È dagli inizi degli anni ’80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull’Italia. Peggio: è dalla fine degli anni ’70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell’Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all’incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l’un l’altra, come nei Piani della P2.
Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l’elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest’ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: "Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro". Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.
La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell’opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D’improvviso non c’è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: "I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all’età loro non l’abbiamo fatto". E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente ("È un gran peccato") la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.
La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d’ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell’inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s’intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d’ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: "Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l’antitesi radicale della Democrazia".