L’inattualità del pensiero debole
di Pier Aldo Rovatti (Il Piccolo, 06 dicembre 2011, pagina 41)
Di Grazia: Il recente
dibattito tra debolismo e neorealismo non è tanto interessante per i suoi contenuti intrinseci, ma per
il fatto che rappresenta una spia di un clima e forse anche di un disagio che si estende al di là delle
diverse prospettive filosofiche che si fronteggiano. Ci si richiama soprattutto alla necessità di fare
un passo indietro e di ritrovare un punto di appoggio più sicuro nei fatti. Ora la filosofia del
Novecento ha mostrato abbastanza chiaramente, credo, che l’idea di verità non può più essere
declinata né solo nell’ambito di un tentativo di coerenza logica interna al discorso, né tanto meno
solo all’interno di un’idea razionalistica che prevede la possibilità di adeguazione dell’idea alla
realtà. Ci si deve quindi fare una domanda su questo venir meno di posizioni che ormai apparivano
acquisite.
Ecco, vorrei allora che ci soffermassimo su quella che appare una intrinseca ambiguità e
problematicità di una posizione che fluidifica e temporalizza la verità, che assume il concetto di
verità come una risultante di forze in perenne contrasto; una posizione che tenta di fare a meno
dell’immaginario essenzialistico agganciato alla parola Verità.
In definitiva, fino a che punto un
popolo, un soggetto, una comunità sono in grado di sostenere la visione abissale aperta dalla
prospettiva di un’assenza di punti di riferimenti certi? Sembra, per esempio, che non sia affatto
scontato un utilizzo “di sinistra” o progressivo o emancipativo dell’heideggerismo. Credo sia
importante aprire un discorso su questa ambivalenza, non per risolverla, ma per delimitarne il
campo e capire se può aver ragione Maurizio Ferraris che ha visto i testi debolisti tra i libri in uso
dall’avvocato Ghedini.
Rovatti: «Sono d’accordo. La questione non è per nulla semplice come si
tende invece a presentarla. Non è così semplice descrivere i motivi per cui nasce, più di trent’anni
fa, qualcosa che prende il nome di ‘pensiero debole’ e i cui effetti si sono variamente disseminati
nella cultura critica non solo italiana. Bisognerà pure, un giorno o l’altro, che qualcuno ricostruisca
seriamente questa genealogia (un inizio si può trovare nel libro “Elogio del pudore” che ho
pubblicato, presso Feltrinelli, con Alessandro Dal Lago nel 1989, cioè abbastanza a ridosso
dell’ormai famoso reading del 1983), e magari rifletta sulla storia di una rivista come “aut aut” che
da allora ha fatto del pensiero debole il suo stile di lavoro.
Ci sarebbero da ricostruire tanti aspetti di
questa vicenda, a partire dai percorsi di Gianni Vattimo e dal mio stesso, che non sono così
omologabili ma che non hanno mai smesso di avere un’ispirazione comune... Ma non è qui il
luogo.
Perciò mi limito
a osservare che tra la reazione a caldo, che il pensiero debole produsse all’inizio, e il ritorno di
fiamma cui adesso assistiamo per opera di uno dei suoi promotori, c’è un vistoso tratto che si ripete,
il rifiuto: un rifiuto frettoloso. Allora si ebbe un’immediata scomunica, aureolata di ironia pungente,
come se, denunciando la violenza del pensiero filosofico (ma non solo filosofico), avessimo
commesso un delitto di lesa maestà che andava condannato prima ancora che compreso.
Oggi, in
nome del realismo, un medesimo gesto di rifiuto viene ripetuto, con altrettanta ironia negatrice,
caricando il pensiero debole di innumerevoli nequizie (in un’associazione a delinquere con il
cosiddetto postmodernismo di cui si celebra addirittura la morte). Lo si ritiene perfino responsabile,
con il suo supposto relativismo, della stagione berlusconiana che ha messo in ginocchio il nostro
Paese e che si è tradotta in quella cultura cinica e spettacolarizzata che ben conosciamo perché ci
siamo dentro fino al collo e chissà per quanto tempo. Una nuova ‘barbarie’, come la si è chiamata,
in cui la menzogna è stata “sdoganata” e la verità è un fievole ricordo.
Già: ma “quale” verità
vogliamo resuscitare? Questo è il nocciolo della questione che riguarda tutti, e io credo che il
pensiero debole resti un’essenziale cassetta di attrezzi (molto poco utilizzata) per tentare di
affrontarla senza menare colpi d’ascia a vuoto.
Senza presumere di possedere nella propria tasca la polverina magica di una verità lampante che basta spargere semplicemente su una situazione che
riguarda anche (eccome!) i presunti spargitori di questa presunta verità. Ho letto con un sentimento
di grande amarezza ciò che è stato scritto in proposito (per esempio sulla rivista “MicroMega”):
come l’antico allievo bastona il maestro irridendolo, e come questo maestro (cioè Vattimo) si
prende i colpi con esagerata pietas e quasi offrendosi al parricidio con il discutibile elogio di un
comunismo alquanto velleitario.
Se dio vuole, ho la fortuna di essere sempre stato al di fuori dalle
sirene della religione e dai contorcimenti del cattolicesimo (il che non significa che non mi renda
conto del potere culturale della Chiesa e del gioco di verità che essa conduce, talora imbracciandolo
come un fucile), e perciò propongo di girare pagina e di andare alle cose.
Vengo dunque a quel nodo
che tu definisci “ambiguità” e posso risponderti con chiarezza che tale nodo è importante e reale,
che ci troviamo oggi in una condizione paradossale in cui - come dice alla fine Foucault - sembra
che abbiamo a disposizione solo un “poco” di verità da coniugare con un “poco” di vita. Se Verità e
Vita diventano obiettivi maiuscoli, se ci illudiamo di possederla la Verità (o vogliamo possederla
tutta), e se ci illudiamo di poter possedere una Vita piena, senza buchi né lacune, ci riduciamo
all’impotenza. Peggio, scavalchiamo l’ostacolo e ci collochiamo dall’altra parte, dalla parte di chi
esercita il potere del pensiero, autoattribuendoselo, contro chi questo potere non ce l’ha e forse non
vuole averlo.
Allora lascerei perdere le grandi parole, come Nichilismo o Metafisica o la stessa
parola Verità: ho imparato a dubitarne, a scorgere in esse il trucco e l’implicita violenza, e penso che
a un’etica massima - che nasconde sempre un qualche principio di autorità, o solo un pacchetto di
interessi e di privilegi da affermare - vada contrapposta un’etica minima, più pudica, più aperta agli
eventi concreti, che cerchi di ritardare il più possibile l’effetto unificante della filosofia. Non nego
l’esigenza della Verità, ma dobbiamo tentare di metterla tra parentesi e di ritardarla, se non
vogliamo essere parlati e alla lettera guidati da essa (Marx usava il termine “sussunzione”
riferendolo alle forme di produzione, ma c’è anche una sussunzione intellettuale).
Questo è
l’insegnamento di vita e di consapevolezza critica che ho ricavato dal pensiero debole (e che ho
cercato, per quel che ho potuto, di immettervi). Quanto alla “cultura” dentro la quale siamo
sprofondati sempre di più nell’ultimo decennio, uno dei tratti che la contrassegnano con evidenza è
il fatto che essa ha espulso da se stessa ogni atteggiamento critico. Certo, è diventata una poderosa
fabbrica di falsità, ma cosa caratterizza questo suo modo di produrre? Direi, un appello costante al
cinismo dell’interesse individuale e alla “virtù” della furbizia».