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SULLA SPIAGGIA (1985). In memoria di Elvio Fachinelli ...

INATTUALITA’ DEL PENSIERO DEBOLE: RAGIONE ANCORA ASTUTA (E ZOPPA)! "Metodo e forza": ricordando Paci, tacendo di Fachinelli, Recalcati elogia Rovatti e se stesso. Una sua nota - a c. di Federico La Sala

Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura
mercoledì 11 gennaio 2012 di Federico La Sala
[...] «L’appello alla Verità e alla Realtà» - scrive Rovatti - «è un appello astratto» se non tiene conto dell’incidenza dei dispositivi del potere. La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell’assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica [...]
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, (...)

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> INATTUALITA’ DEL PENSIERO DEBOLE: RAGIONE ANCORA ASTUTA! ---- Al di là del cinismo dell’interesse individuale e della “virtù” della furbizia. Da “Inattualità del pensiero devole”, l’inizio della conversazione di Pier Aldo Rovatti con Alessandro Di Grazia.

giovedì 5 gennaio 2012

L’inattualità del pensiero debole

di Pier Aldo Rovatti (Il Piccolo, 06 dicembre 2011, pagina 41)

      • Da “Inattualità del pensiero devole” di Pier Aldo Rovatti pubblichiamo l’inizio della conversazione con Alessandro Di Grazia, per gentile concessione della casa editrice Forum.

Di Grazia: Il recente dibattito tra debolismo e neorealismo non è tanto interessante per i suoi contenuti intrinseci, ma per il fatto che rappresenta una spia di un clima e forse anche di un disagio che si estende al di là delle diverse prospettive filosofiche che si fronteggiano. Ci si richiama soprattutto alla necessità di fare un passo indietro e di ritrovare un punto di appoggio più sicuro nei fatti. Ora la filosofia del Novecento ha mostrato abbastanza chiaramente, credo, che l’idea di verità non può più essere declinata né solo nell’ambito di un tentativo di coerenza logica interna al discorso, né tanto meno solo all’interno di un’idea razionalistica che prevede la possibilità di adeguazione dell’idea alla realtà. Ci si deve quindi fare una domanda su questo venir meno di posizioni che ormai apparivano acquisite.
-  Ecco, vorrei allora che ci soffermassimo su quella che appare una intrinseca ambiguità e problematicità di una posizione che fluidifica e temporalizza la verità, che assume il concetto di verità come una risultante di forze in perenne contrasto; una posizione che tenta di fare a meno dell’immaginario essenzialistico agganciato alla parola Verità.
-  In definitiva, fino a che punto un popolo, un soggetto, una comunità sono in grado di sostenere la visione abissale aperta dalla prospettiva di un’assenza di punti di riferimenti certi? Sembra, per esempio, che non sia affatto scontato un utilizzo “di sinistra” o progressivo o emancipativo dell’heideggerismo. Credo sia importante aprire un discorso su questa ambivalenza, non per risolverla, ma per delimitarne il campo e capire se può aver ragione Maurizio Ferraris che ha visto i testi debolisti tra i libri in uso dall’avvocato Ghedini.

Rovatti: «Sono d’accordo. La questione non è per nulla semplice come si tende invece a presentarla. Non è così semplice descrivere i motivi per cui nasce, più di trent’anni fa, qualcosa che prende il nome di ‘pensiero debole’ e i cui effetti si sono variamente disseminati nella cultura critica non solo italiana. Bisognerà pure, un giorno o l’altro, che qualcuno ricostruisca seriamente questa genealogia (un inizio si può trovare nel libro “Elogio del pudore” che ho pubblicato, presso Feltrinelli, con Alessandro Dal Lago nel 1989, cioè abbastanza a ridosso dell’ormai famoso reading del 1983), e magari rifletta sulla storia di una rivista come “aut aut” che da allora ha fatto del pensiero debole il suo stile di lavoro.
-  Ci sarebbero da ricostruire tanti aspetti di questa vicenda, a partire dai percorsi di Gianni Vattimo e dal mio stesso, che non sono così omologabili ma che non hanno mai smesso di avere un’ispirazione comune... Ma non è qui il luogo.
-  Perciò mi limito a osservare che tra la reazione a caldo, che il pensiero debole produsse all’inizio, e il ritorno di fiamma cui adesso assistiamo per opera di uno dei suoi promotori, c’è un vistoso tratto che si ripete, il rifiuto: un rifiuto frettoloso. Allora si ebbe un’immediata scomunica, aureolata di ironia pungente, come se, denunciando la violenza del pensiero filosofico (ma non solo filosofico), avessimo commesso un delitto di lesa maestà che andava condannato prima ancora che compreso.
-  Oggi, in nome del realismo, un medesimo gesto di rifiuto viene ripetuto, con altrettanta ironia negatrice, caricando il pensiero debole di innumerevoli nequizie (in un’associazione a delinquere con il cosiddetto postmodernismo di cui si celebra addirittura la morte). Lo si ritiene perfino responsabile, con il suo supposto relativismo, della stagione berlusconiana che ha messo in ginocchio il nostro Paese e che si è tradotta in quella cultura cinica e spettacolarizzata che ben conosciamo perché ci siamo dentro fino al collo e chissà per quanto tempo. Una nuova ‘barbarie’, come la si è chiamata, in cui la menzogna è stata “sdoganata” e la verità è un fievole ricordo.
-  Già: ma “quale” verità vogliamo resuscitare? Questo è il nocciolo della questione che riguarda tutti, e io credo che il pensiero debole resti un’essenziale cassetta di attrezzi (molto poco utilizzata) per tentare di affrontarla senza menare colpi d’ascia a vuoto.
-  Senza presumere di possedere nella propria tasca la polverina magica di una verità lampante che basta spargere semplicemente su una situazione che riguarda anche (eccome!) i presunti spargitori di questa presunta verità. Ho letto con un sentimento di grande amarezza ciò che è stato scritto in proposito (per esempio sulla rivista “MicroMega”): come l’antico allievo bastona il maestro irridendolo, e come questo maestro (cioè Vattimo) si prende i colpi con esagerata pietas e quasi offrendosi al parricidio con il discutibile elogio di un comunismo alquanto velleitario.
-  Se dio vuole, ho la fortuna di essere sempre stato al di fuori dalle sirene della religione e dai contorcimenti del cattolicesimo (il che non significa che non mi renda conto del potere culturale della Chiesa e del gioco di verità che essa conduce, talora imbracciandolo come un fucile), e perciò propongo di girare pagina e di andare alle cose.
-  Vengo dunque a quel nodo che tu definisci “ambiguità” e posso risponderti con chiarezza che tale nodo è importante e reale, che ci troviamo oggi in una condizione paradossale in cui - come dice alla fine Foucault - sembra che abbiamo a disposizione solo un “poco” di verità da coniugare con un “poco” di vita. Se Verità e Vita diventano obiettivi maiuscoli, se ci illudiamo di possederla la Verità (o vogliamo possederla tutta), e se ci illudiamo di poter possedere una Vita piena, senza buchi né lacune, ci riduciamo all’impotenza. Peggio, scavalchiamo l’ostacolo e ci collochiamo dall’altra parte, dalla parte di chi esercita il potere del pensiero, autoattribuendoselo, contro chi questo potere non ce l’ha e forse non vuole averlo.
-  Allora lascerei perdere le grandi parole, come Nichilismo o Metafisica o la stessa parola Verità: ho imparato a dubitarne, a scorgere in esse il trucco e l’implicita violenza, e penso che a un’etica massima - che nasconde sempre un qualche principio di autorità, o solo un pacchetto di interessi e di privilegi da affermare - vada contrapposta un’etica minima, più pudica, più aperta agli eventi concreti, che cerchi di ritardare il più possibile l’effetto unificante della filosofia. Non nego l’esigenza della Verità, ma dobbiamo tentare di metterla tra parentesi e di ritardarla, se non vogliamo essere parlati e alla lettera guidati da essa (Marx usava il termine “sussunzione” riferendolo alle forme di produzione, ma c’è anche una sussunzione intellettuale).
-  Questo è l’insegnamento di vita e di consapevolezza critica che ho ricavato dal pensiero debole (e che ho cercato, per quel che ho potuto, di immettervi). Quanto alla “cultura” dentro la quale siamo sprofondati sempre di più nell’ultimo decennio, uno dei tratti che la contrassegnano con evidenza è il fatto che essa ha espulso da se stessa ogni atteggiamento critico. Certo, è diventata una poderosa fabbrica di falsità, ma cosa caratterizza questo suo modo di produrre? Direi, un appello costante al cinismo dell’interesse individuale e alla “virtù” della furbizia».


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