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VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione ... e anche la maschera

OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere - a c. di Federico La Sala

EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ (lettera alfabeto greco = X) DI CRISTO NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL CROCIFISSO DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA
mercoledì 13 febbraio 2013
Per leggere i testi, cliccare sui titoli evidenziati in rosso:
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
FORZA "CRISTO RE"!!! (Paolo di Tarso): "vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale (...)

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> OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI --- Sul primato di Pietro. Intervista a Fulvio Ferrario, docente di teologia presso la facoltà valdese di Roma, impegnato nel terreno dell’ecumenismo.

venerdì 1 febbraio 2013

intervista a Fulvio Ferrario,

a cura di Paola Cavallari e Lucia Scrivanti

in “Esodo” n° 4, dell’ottobre-dicembre 2010

      • Paola Cavallari e Lucia Scrivanti, della redazione di Esodo, hanno intervistato il pastore Fulvio Ferrario, docente di teologia presso la facoltà valdese di Roma, impegnato nel terreno dell’ecumenismo, intorno a storici terreni di dibattito e a interpretazioni della Parola tuttora non condivise tra le chiese cristiane, ostacolo a quell’unità fra credenti in Cristo Gesù, che rappresenta una delle principali condizioni (la condizione fondamentale?) per una credibile testimonianza. Questo è infatti il comandamento del Maestro prima della sua morte: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34-35). Sullo stesso argomento dell’intervista a Fulvio Ferrario, nel prossimo numero della rivista verrà presentato un intervento di un teologo cattolico.

-  La prima questione che ti poniamo è un commento al passo di Matteo 16,18 ("E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa") - un commento da te, pastore valdese e affermato professore di teologia.

La teologia protestante e quella cattolica hanno da tempo acquisito che la figura di Pietro, già prima, e sicuramente dopo la morte di Gesù, ha svolto un ruolo preminente all’interno del gruppo più stretto intorno al Signore. Prima della Pasqua, troviamo nella tradizione sinottica il fatto che Pietro è il portavoce del gruppo dei dodici, e che comunque svolge un ruolo di preminenza. Dopo la Pasqua, Pietro è il primo nelle liste delle apparizioni, e tutto lascia pensare che l’iniziativa di ricostituire il gruppo dei discepoli dopo la morte di Gesù risalga a Pietro.

-  Un consenso trasversale tra protestanti e cattolici? Non sussistono problemi di interpretazione?

Sì. Questo consenso non conosce al suo interno delle differenziazioni confessionali, perché da tempo l’esegesi a livello scientifico si è emancipata dalle ipoteche confessionali. Ma qui finisce il piano della constatazione storica.

I problemi dei protestanti non sono con Pietro, sono con il pontefice romano Benedetto XVI. Cominciano con l’idea di successione. La domanda è se la figura di Pietro come tale, e il ruolo che Pietro ha avuto possano ammettere l’idea di una successione; se il ruolo di Pietro non si sia esaurito con Pietro.

Il passo che lega a Pietro l’idea della custodia di una tradizione relativa a Gesù: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa", certamente, dal punto di vista di chi l’ha scritto, non prevede che altre persone esercitino lo stesso ruolo dopo Pietro. Quello che si vuol dire, invece, è che la tradizione su Gesù è legata al nome di questo testimone.

Prova ne sia che il passo di Matteo è riferito al vescovo di Roma solo a partire dal III secolo. Per 250 anni a nessuno è venuto in mente di legare il passo di Matteo su Pietro alla figura del vescovo di Roma. In una prima fase, a Roma non c’è stato un monoepiscopato; nel I secolo a Roma la chiesa era una rete di gruppi governata da un collegio di presbiteri. Il monoepiscopato, l’idea cioè di un vescovo unico in una chiesa locale, si stabilisce a Roma relativamente tardi.

Poi, dopo la morte di Ignazio di Antiochia - che è colui che dall’oriente importa in occidente l’idea dell’episcopato unico - a Roma vediamo apparire il vescovo.

Passano ancora cent’anni circa e, a questo punto, la sede romana rivendica una sorta di primato tra le chiese. È questa la fase in cui si passa dal greco al latino, come lingua ufficiale della chiesa, ed è anche la fase in cui il vescovo di Roma si comprende come successore di Pietro. Egli inizia a citare il passo petrino come testimonianza di una particolare autorità del vescovo di Roma.

La chiesa di Roma, prima d’allora, era comunemente definita la chiesa di Pietro e di Paolo, con riferimento al fatto che entrambi erano morti martiri a Roma. Nel III secolo essa inizia a essere chiamata la chiesa di Pietro - non più di Pietro e Paolo. Si osserva un’esigenza di legare un mito di fondazione alla funzione di accentramento della figura dirigente. Questo è il quadro.

Il testo di Matteo non ha nulla a che vedere con la questione confessionale relativa al papato come funzione primaziale del vescovo di Roma. Stupisce che - dopo tutto quello che l’esegesi ci ha spiegato - in alcuni testi ancora oggi - penso, ad esempio, all’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II - la rivendicazione del primato del vescovo di Roma venga motivata con riferimento al passo petrino.

-  Se capiamo bene, allora, l’esegesi scientifica, sia cattolica, sia protestante, attesta che, dopo la morte di Pietro come guida nel primo periodo - guida motivata dalle stesse parole di Gesù - ci sia stata una sorta di eclisse del modello monocratico, che riemergerà dopo secoli nel monoepiscopato...

È tutto diverso. L’evangelo di Matteo fa un discorso sulla persona di Pietro. La persona di Pietro muore a Roma verosimilmente sotto Nerone. Il Nuovo Testamento non è in alcun modo nemmeno sfiorato dall’idea che esista qualcosa come una successione a Pietro in una funzione. Questo può essere letto solo in lavori che non hanno un carattere scientifico. Negli altri, invece, si sostiene che il Nuovo Testamento non ha alcuna idea di una successione alla figura di Pietro. O, più spesso, non si affronta nemmeno il tema.

A Roma non c’era un vescovo - una persona singola - ma un collegio. L’idea che una successione a Pietro godrebbe delle prerogative e delle promesse associate al passo matteano di Gesù è, lo ripeto, del III secolo. Cioè nasce ed è documentata per la prima volta in una fase tardiva, nella quale la chiesa di Roma rivendica un primato rispetto alle altre chiese.

-  Quale sarebbe stata allora l’esigenza per cui Gesù avrebbe pronunciato la famosa frase del passo matteano, creando così il "primato" di Pietro?

Non possiamo più risalire all’intenzione del Gesù della storia. Quello che possiamo dire è che Matteo, nel momento in cui scrive il vangelo, cioè più o meno 50 anni dopo la morte di Gesù, intende affermare che le tradizioni relative a Gesù che si richiamano a Pietro - cioè che sarebbero state tramandate da Pietro e dai suoi seguaci - dispongono di una particolare autorevolezza. È verosimile, in base a criteri di critica storica, che Pietro abbia svolto una funzione particolare nel gruppo di persone più vicine a Gesù.

-  Ci può essere qualche legame con il conflitto Pietro/Paolo nel cosiddetto concilio di Gerusalemme?

La questione non era tanto tra Pietro e Paolo, i quali si sono scontrati in un’altra disputa ad Antiochia, relativa alla partecipazione dei non cristiani di origine ebraica alla cena. Il conflitto era tra Paolo e i giudei cristiani, cioè tra Paolo e i cristiani di origine ebraica/palestinese di Gerusalemme. Paolo era uno dei cristiani ebrei di lingua greca: si trattava dei cosiddetti ellenisti, come li chiama il libro degli Atti. I cristiani palestinesi (di lingua greca) erano i "progressisti", per così dire, invece i cristiani di lingua aramaica erano il partito conservatore; essi pensavano che, siccome Gesù era nato ebreo ed era ebreo, per diventare cristiani occorresse diventare ebrei, cioè farsi circoncidere; Paolo li chiama anche giudaizzanti. Questo era lo scontro.

Paolo si reca a Gerusalemme, Pietro assume, per quel che noi ne possiamo sapere soprattutto da quanto possiamo dedurre dalle epistole di Paolo - infatti il libro degli Atti è assai successivo alla fonte -, il ruolo di mediazione tra il partito giudeo palestinese duro, che viene identificato sempre col nome di Giacomo - Paolo lo chiama il fratello del Signore - e Paolo stesso.

In mezzo c’è Pietro, che in qualche modo cerca di mediare. Ma il ruolo primaziale nella comunità di Gerusalemme, se mai ce n’è stato uno, non era di Pietro ma di Giacomo, per quel che noi possiamo capire in base alla testimonianza di Paolo.

Tutta la discussione relativa al primato di Pietro non si situa nel contesto di Gerusalemme, ma già dopo il trasferimento di Pietro a Roma. La questione Pietro/Paolo non è la più lacerante. Appare invece evidente una dicotomia Paolo/Giacomo. Ad un certo punto, Pietro si schiera, in una discussione ad Antiochia - sempre secondo Paolo - troppo dalla parte di quelli di Giacomo, e questo crea uno scontro tra i due.

-  Ma allora sorge una domanda: non avrebbe dovuto essere Pietro questo “capo” della comunità, secondo quanto abbiamo detto prima?

Non è questo il punto, perché la tradizione che pone in luce Matteo si sviluppa altrove. Non bisogna pensare a Gerusalemme come ad un centro da cui tutto si dipana. Il conflitto tra Giacomo e Paolo si verifica prima che venga scritto l’Evangelo di Matteo. Non solo, ma l’Evangelo di Matteo non si sa dove sia stato scritto, pensiamo alla Siria; quindi da un’altra parte.

La tradizione relativa al primato di Pietro - tradizione che si consolida nell’Evangelo di Matteo, e il riferimento c’è solo in Matteo - non gioca alcun ruolo nella disputa tra Paolo e Giacomo. Paolo non ne sa nulla. Non c’è nessun passo nelle lettere di Paolo, da cui noi apprendiamo che Pietro sia stato investito di una particolare responsabilità da parte di Gesù.

C’è un errore di prospettiva nella domanda, che deriva da questo presupposto: all’origine c’è il passo petrino, che è precedente a tutto, poi viene il resto...

In un certo senso ci troveremmo di fronte ad un presupposto vero perché, se l’avesse detto Gesù - ma non possiamo ricostruire se storicamente sia così - l’avrebbe detto prima. Però quello che noi conosciamo è una tradizione filtrata dalla teologia di Matteo. E il Vangelo di Matteo è stato scritto ben dopo le dispute tra Paolo e Giacomo. Ben dopo l’invio o l’andata di Pietro a Roma, ben dopo la morte di Pietro.

-  Ora vorremo sapere un tuo parere sul dogma dell’infallibilità papale.

Il dogma dell’infallibilità papale viene definito nel 1870, in un momento in cui Roma sta per essere attaccata dall’esercito italiano. Il Concilio Vaticano I° viene interrotto a motivo della presa di Roma da parte dei bersaglieri dell’esercito italiano. Rappresenta il culmine di un processo iniziato con la controriforma, ma che ha avuto una accelerazione nell’800 col papato di Pio IX. Roma vuol accentuare il peso della tradizione, contrapponendosi al Sola scriptura dei protestanti. Roma si richiama così ad una tradizione orale che sarebbe antecedente alla Scrittura. Col tempo questa tradizione viene identificata col magistero ecclesiastico: esso sarebbe il custode della tradizione, e il magistero ecclesiastico viene poi identificato col papato.

Il dogma del 1870 è un frutto del cosiddetto ultramontanismo, di quel movimento centrato sulla autorità del papa, che pretende di resistere all’illuminismo, al liberalismo, insomma alla modernità. I dogmi del Vaticano I sono due: l’infallibilità dottrinale del papa quando parla ex cathedra, e il primato di giurisdizione del pontefice romano. Quindi un’estrema personalizzazione e accentramento del ministero, dell’autorità in ambito dottrinale e morale.

-  E un commento protestante?

Il fenomeno rappresenta il punto di vertice di un processo di lievitazione incontrollata dalla funzione del vescovo di Roma. È un lungo percorso, le cui tappe sono, ad esempio, prima Leone Magno, poi Gregorio VII, quindi Innocenzo III, la Controriforma, eccetera. Ma certamente il papato della Riforma, quello con cui polemizza Lutero, dal punto di vista dottrinale e dogmatico, è molto più leggero del papato di Pio IX. Ad esempio, nel dibattito ecumenico attuale, se la dottrina romana relativa al papato fosse quella del XVI sec., per molti protestanti oggi - e certamente per molti ortodossi - non ci sarebbero ostacoli decisivi.

-  Paolo Ricca parla di carismi differenti, a proposito delle diverse confessioni cristiane. Esiste, a tuo parere, un qualche carisma anche nella figura dell’autorità papale in sé, a prescindere dalle "degenerazioni" storiche che si sono create nel tempo?

No, io non credo. Può darsi che esistano dei protestanti che rispondano affermativamente. Io credo che storicamente il papato abbia svolto un ruolo pernicioso per l’unità cristiana. Il papato ha favorito sia la divisione tra l’Oriente e l’Occidente, sia quella, all’interno dell’Occidente, tra le chiese della Riforma e la chiesa che non ha accolto la Riforma. Poi, all’interno del cattolicesimo romano, ha favorito lo scisma dei vecchi cattolici - quelli che non hanno accettato il dogma dell’infallibilità; e, sempre dentro la chiesa romana, ha favorito tutti gli scontri successivi - ad esempio, il modernismo
-  sulla libertà. Ha favorito un accentramento del quale la chiesa romana ha incredibilmente sofferto.

Se in altre condizioni il vescovo di Roma potrebbe o potrà svolgere un ministero diverso, è una questione che allo stato attuale non è dato di dirimere. Sono molto drastico: l’idea che spesso si dà del ministero papale come un ministero di unità è ideologica. Di fatto il papa ha svolto e svolge una funzione di divisione.

-  Ma non si potrebbe pensare, in qualche modo, ad una funzione di utilità, all’interno di una chiesa ecumenica, nella figura di un primate?

Bisogna distinguere due questioni. Quello che afferma il dogma del primato - più che quello dell’infallibilità - è che il vescovo di Roma esercita un primato di giurisdizione sulla chiesa universale per diritto divino, perché tale primato corrisponde alla volontà di Dio nella sua rivelazione in Gesù Cristo. Questo viene rifiutato dagli evangelici. Una questione diversa è se, dal punto di vista della praticità - e non dal punto di vista del diritto divino -, sia o meno utile che un vescovo eserciti una questione presidenziale in una ipotetica chiesa ecumenica, cattolica, una sorta di coordinatore, di portavoce, di presidente. Spesso si discute di questo, ma è una discussione campata per aria, perché in realtà quello che esiste de facto è un papato romano, il quale si fa forte di un apparato dogmatico, cioè di due dogmi della fede che lo riguardano.

Per quanto riguarda le altre forme di esercizio del papato, diverse da quelle attuali, che a suo tempo Giovanni Paolo II ha ipotizzato, bisogna dire che il problema non riguarda l’esercizio, bensì la concezione che il papato ha di se stesso. Solo che queste forme di esercizio più collegiale del primato non le ha mai viste nessuno. Quali sono? Sarebbe interessante - ma non risolutivo - vedere queste nuove forme più collegiali all’opera all’interno della chiesa romana. Ma qui, invece, continua ad operare un forte centralismo papale, per nulla collegiale. Anzi, le prerogative dei singoli vescovi e del collegio episcopale sembrano oggi notevolmente ridotte rispetto al primo decennio successivo al Concilio Vaticano II.


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