Milena Jesenská
Una grande giornalista nota ormai solo come amica di Kafka
di Giorgio Fontana (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
Milena Jesenská è conosciuta soprattutto per la sua relazione epistolare con Franz Kafka, e per essere stata la sua prima traduttrice: nel 1920 pubblicò Il fochista in ceco presso il settimanale «Kmen». Ma questa veste ancillare le sta stretta: anche prima di conoscere Kafka era una figura nota del panorama culturale praghese di inizio Novecento; poco più tardi sarebbe diventata una brava scrittrice di feuilleton e una reporter di grande spessore.
A colmare il vuoto pensa Qui non può trovarmi nessuno, edito da Giometti&Antonello nella traduzione di Donetalla Frediani - dal tedesco e non dal ceco: scelta curiosa, ma giustificata dall’eleganza della resa. Nel volume, curato da Dorothea Rein, compare una selezione degli scritti di Jesenská, ordinati cronologicamente e con otto lettere a Max Brod su Kafka in appendice.
Leggiamo per primi i bozzetti su Vienna, città in cui la scrittrice visse con il marito ma dove si sentì assai infelice. Sono scene di vita quotidiana: i mercati neri degli operai, la miseria del dopoguerra e i bagordi dei bohémien, con un gusto particolare per gli spaccati dei sobborghi. Un esempio: «lo spettacolo che si offre ai vostri occhi allorché vi avvicinate alla stazione di una grande città, le facciate posteriori delle case incollate l’una all’altra, le cucine e i pianerottoli illuminati da una luce grigio-giallastra, la biancheria stesa alle ringhiere dei ballatoi dove sono i servizi - immaginate una sera d’agosto nella città deserta, infocata, una giostra dei sobborghi, col suo organetto di Barberia, le sue perle, i suoi diamanti blu e i suoi cavallini di legno». Degli uomini che abitano queste zone Jesenská conosce la dignità come la stortura. Sa che la miseria partorisce i difetti più tremendi, e che «la fame non spinge l’uomo verso una scodella piena, ma alla folle dissipazione». Riconosce il cinismo dei mendicanti, la loro capacità di trasformare la sofferenza in pubblicità, e la compara al nudo dolore di una madre dal figlio morto, che non chiede nulla e provoca la fuga della scrittrice - «quasi fossi io a dovermi salvare».
Molto interessanti sono anche gli scritti sul cinema, dove Jesenská recensisce alcune pellicole dell’epoca (Chaplin, von Stroheim, Lubitsch, Stiller), e naturalmente il breve e stupendo ricordo di Kafka, apparso pochi giorni dopo la sua morte. Ma a rivelare la reale caratura dell’autrice sono i lunghi reportage commissionati dalla testata «Pítomnost» nel difficile periodo 1937-1939: testi sulla condizione degli emigrati tedeschi in Repubblica Ceca e sull’emarginazione dei neri a Vienna, dove si impedisce loro di lavorare e gli si confisca ogni bene (un «linciaggio compiuto all’ombra della legalità»); e in particolare gli straordinari dispacci sull’annessione dei Sudeti da parte del Reich. Qui vediamo davvero la Storia in presa diretta: ma l’occhio di Jesenská ne coglie soprattutto le ricadute sulla quotidianità, come il rifiuto da parte di due bambine di salutare con «Sieg Heil», e la punizione che ne segue.
Jesenská cercò a lungo, nella parola come nella vita, un luogo «in cui nessuno potesse trovarla». Non vi riuscì. Nel 1940 fu rinchiusa nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove morì quattro anni dopo; ma fino all’ultimo conservò la sua lucidità di pensiero e la sua resistenza alle compromissioni. Ulteriori buone ragioni per rileggerla oggi.