Matteo Ricci. Il primo «mandarino» d’Occidente
Nella Cina vide il Paese che aveva eletto la scrittura, la letteratura, la filosofia e le sue «sterminate antichità» a mezzi di un buon governo
di Michela Catto (Il Sole-24 Ore Domenica, 26.10.2014)
Vestire, mangiare, parlare «alla cinese». Questa l’intuizione avuta da Matteo Ricci a Macao, alle porte della Cina, nell’unico luogo in cui gli stranieri erano autorizzati a risiedere. Lì maturò la convinzione che mai si sarebbe «entrati nella Cina» senza indossare la seta cinese, far crescere lunghe barbe e mettere sul capo il cappello da mandarino. Non più la tonaca buddista, non più accostarsi a quei monaci che per abitudini di vita - il celibato - e tipologie di culto erano parsi all’inizio così simili ai religiosi venuti dall’Occidente, mossi dal desiderio di fare una breccia nell’Impero di mezzo.
Ancora una volta l’intuizione; questa volta quella dell’inesorabile decadenza che il buddismo stava vivendo in Cina. Non era appaiandosi in esso che il cristianesimo poteva acquisire quell’autorità, e autorevolezza, necessaria per convertire. Da questo momento le critiche non furono risparmiate ai bonzi cinesi: rozzi, ignoranti, simulatori di pratiche sistematicamente violate nel privato, astinenze e digiuni in pubblico, abbuffate e ricche bevute nel privato dei loro templi in mezzo ai loro idoli. I bonzi e la loro dottrina furono sistematizzati nel pensiero degli occidentali e inseriti tra le innumerevoli idolatrie e superstizioni che già i missionari avevano incontrato nel mondo, tutto ricondotto ai culti malvagi che il demonio aveva riservato per sé e che i missionari erano impegnati a estirpare. Ma non proprio tutto poteva essere disprezzato, sostituito e conquistato.
In quella terra meravigliosa, destinata a diventare per alcuni il modello di società perfetta, qualcosa e qualcuno sembrava sottrarsi ai canoni universali della superstizione e dell’idolatria.
Erano quei mandarini e letterati che governavano la Cina, il Paese che aveva eletto la scrittura, la letteratura, la filosofia e le sue «sterminate antichità» a mezzi di un buon governo e di una società civilizzata, come mai prima, scrivevano i gesuiti, si erano incontrati.
Erano strani e bizzarri questi mandarini, con le loro cortesie, i loro codici comportamentali, le loro mille maniere dai significati spesso esattamente speculari agli usi europei, ma sembravano reggere il loro governare su principi morali e questi erano contenuti nei loro antichi testi filosofici, dalla dottrina del loro santo, il venerato Confucio.
E a ben guardare il santo uomo era venuto dall’Est, come il Messia, e il suo pensiero «nel suo essentiale non contiene niente contra l’essentia della fede catholica», scriveva Ricci. Così iniziava l’avventura del cristianesimo in terra cinese ma anche il viaggio a ritroso: la Cina giungeva in Occidente.
Tratteggiata dalle penne dei gesuiti essa pareva riproporre all’Europa i medesimi nessi e le stesse questioni insite nell’eredità del suo passato pagano, ritornato di grande attualità dopo la rottura del mondo cristiano, quando ogni confessione rivendicò per sé il titolo di autentica erede del vero cristianesimo.
L’interpretazione che Matteo Ricci aveva fornito della Cina, dei suoi costumi e delle sue religioni infatti non ebbe solo l’effetto di dare inizio, quasi subito dopo la sua morte (1610), a una delle più grandi querelle, quella sul significato e la legittimità dei riti cinesi, che - insieme a giansenismo e a molto altro - contribuì a gettare le premesse per la soppressione della Compagnia di Gesù (1773).
Discutere sui riti cinesi, sostenere la natura religiosa o politica delle cerimonie agli antenati e di Confucio, voleva dire parlare dell’esistenza di una morale, quella che reggeva e governava la società cinese e che si rinnovava continuamente con la pratica dei suoi riti, indipendente dalla religione e dalla Rivelazione, porre dubbi sul messaggio di salvezza portato da Cristo.
O almeno così fu fatto da alcuni. Sfuggì di mano alla Compagnia di Gesù il mito gesuitico della Cina. Matteo Ricci, il primo codificatore, non poteva certamente immaginare che le sue descrizioni sarebbero state usate da libertini e illuministi per tentare di rompere l’indissolubile legame tra morale e religione.
Da Matteo Ricci in poi, la Cina divenne protagonista per lungo tempo della cultura europea e le notizie provenienti dal l’Estremo Oriente furono la più grande importazione culturale di cui fu protagonista l’Europa di età moderna: comparare le antichità cinesi per riconciliarle con l’autorità della Bibbia e delle storia sacra; conciliare il modello della società cinese con le teorie politiche elaborate dagli intellettuali europei; ravvivare il dibattito sulla relazione tra religione e morale che da allora non si sarebbe più spento.