Il disgelo tra Santa Sede e Pechino
Svolta nei rapporti Vaticano-Cina Francesco nominerà 3 vescovi
Sarà il Pontefice e non il governo a nominare i prelati delle sedi vacanti
E’ la prima volta dalla rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Stati
di Paolo Salom (Corriere della Sera, 31.01.2016)
L’annuncio è pronto, probabilmente già sulla scrivania del Papa. In Vaticano non nascondono la soddisfazione. Perché, per la prima volta dalla rottura delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Repubblica Popolare, sarà il Pontefice a nominare i nuovi vescovi (probabilmente tre) di sedi vacanti in Cina.
Questo il frutto di un intenso, quanto discreto lavoro diplomatico iniziato tra grandi diffidenze e difficoltà sotto Benedetto XVI e proseguito con passo più spedito dall’elezione di Francesco. Più volte nel corso degli ultimi anni, delegazioni pontificie sono state accolte a Pechino e inviati dell’Impero Celeste hanno fatto la loro comparsa al di là delle mura vaticane.
L’ultima trattativa risale alla scorsa settimana. Due giorni in cui i rappresentanti delle due parti hanno affrontato con un pragmatismo condiviso dalla tradizione gesuita e da quella cinese le questioni aperte: dalla più semplice a quella più complessa. Per ora, fanno sapere in Vaticano, è stato convenuto di risolvere un’annosa questione riguardo la nomina dei vescovi, come noto prerogativa del Papa cui i nuovi pastori devono obbedienza. Il risultato convenuto sarebbe questo: Pechino sottopone al Vaticano una lista di nomi «graditi» e tra questi il Pontefice identifica e annuncia il nome prescelto.
La Chiesa Patriottica
Il passaggio, al di là delle apparenze, è decisivo. Perché quando i rapporti erano più freddi, se non ostili, era la Chiesa Patriottica, ovvero l’organizzazione ufficiale dei fedeli cattolici dipendente dal governo di Pechino, a scegliere e nominare i vescovi senza nemmeno consultare la Sante Sede. A suo tempo, Giovanni Paolo II aveva ricordato come i pastori così scelti si sarebbero dovuti considerare automaticamente scomunicati.
Più di recente, il riavvicinamento tra Vaticano e Impero Celeste aveva portato a un meccanismo (tacito) più accettabile per Roma: la Chiesa Patriottica avrebbe scelto i nuovi vescovi da una rosa gradita in San Pietro. Un processo che aveva portato Benedetto XVI, dopo alcune asperità, a dichiarare che la «quasi totalità» dei vescovi nominati in Cina «sono ormai in comunione piena con la Santa Sede».
Ora il meccanismo si ribalta. E, punto nodale, non è qualcosa di semplicemente «tollerato» (perché male minore) ma il frutto di un accordo raggiunto e accettato da entrambe le parti in causa. Inoltre non è che il primo di una serie di passi (aperture?) che i più ottimisti inseriscono in un percorso che si concluderà entro la fine di quest’anno con l’annuncio della ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche, sessanta e più anni dopo la fuga da Pechino (1952) del Nunzio Apostolico.
Il «nodo» Taiwan
Contemporaneamente, il Vaticano dovrà ritirare il suo riconoscimento a Taiwan, «conditio sine qua non» imposta da Pechino a chiunque voglia inviare un ambasciatore sotto la Grande Muraglia (sono 23, al momento, compresa la Santa Sede, i Paesi che hanno relazioni con l’«isola ribelle» e non con la Madre Patria).
In Cina nel 2017?
Dunque non è impossibile immaginare, forse nel 2017, un viaggio di papa Francesco in Cina, un viaggio che cambierebbe la Storia della Chiesa e dell’Asia: mai un Pontefice ha potuto mettere piede sul suolo del Paese di Mezzo. Ad attendere questo momento, i 4 milioni di cattolici iscritti nell’Associazione patriottica cinese (insomma, la Chiesa di regime) e, soprattutto, i 16 milioni di seguaci della Chiesa clandestina, fuori legge e ufficialmente «sovversiva» perché da sempre fedele a Roma.
È proprio questo il nodo più difficile da sciogliere: la questione della fedeltà a un «governo straniero», considerata cosa empia nella Repubblica Popolare, fondata da Mao sulle ceneri di un Paese che era stato preda per secoli delle mire colonialiste delle Potenze Occidentali e non solo. Ma, se è corretto quanto trapela, e cioè che entro fine anno tutto sarà sistemato, è lecito ritenere che anche questa (spinosa) questione è stata affrontata. E qualcuno ha suggerito come superarla.
Da Matteo Ricci a Francesco, il filo che lega due imperi
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 31.01.2016)
CITTÀ DEL VATICANO Isola di Sanciano, 3 dicembre 1552, poco dopo mezzanotte: in una capanna, vegliato da un amico cinese, padre Francesco Saverio, primo missionario gesuita, muore guardando a un paio di miglia il «Regno di Mezzo». Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, lo aveva inviato in Oriente nel 1540 e lui aveva capito che per diffondere il Vangelo bisognava ad ogni costo raggiungere quel Paese immenso per dimensioni, storia e cultura, arrivare al cuore dell’Asia: un sogno compiuto trent’anni più tardi da Matteo Ricci, il confratello che conquistò la stima dei cinesi scrivendo nella loro lingua il trattato Dell’amicizia e disegnando un mappamondo che, nel 1584, metteva al centro la Cina, non l’Europa.
Bisogna partire da qui, per capire la portata del dialogo in corso tra due realtà millenarie. Il primo Papa gesuita della storia sa come Francesco Saverio che «il futuro della Chiesa è l’Asia» e la Cina ne è il centro, «se ci andrei? Domani!».
Non è stato facile arrivare fino a questo punto, come dimostrano le vicende degli ultimi sessant’anni, ed ora è il momento più delicato. Le persecuzioni e l’espulsione di vescovi e missionari risalgono agli anni Cinquanta, sotto il regime di Mao: la nascita dell’Ufficio per gli Affari Religiosi e della «Associazione patriottica » controllata dal Partito, nel ‘58 le prime due ordinazioni senza mandato episcopale, vescovi e sacerdoti arrestati.
Eppure «la Santa sede non ha mai usato la parola “scisma”», ricordava poche settimane fa l’arcivescovo Claudio Maria Celli, uno dei massimo esperti di Cina in Vaticano. La diplomazia della Santa Sede non chiude mai la porta. Già allora vescovi «di regime» scrivevano in segreto al Papa.
Le cose hanno iniziato a cambiare negli anni Ottanta, con le riforme di Deng Xiaoping. Riaprirono chiese, seminari e case religiose. E cominciarono pure le prime resistenze, sia nella burocrazia cinese sia in quella ecclesiastica.
Anche nella Chiesa si sono confrontate un’anima più «agonistica», guidata dall’anziano cardinale Joseph Zen, ed una più dialogante. Chi proseguiva la polemica contro il regime e marcava la differenza con la «Chiesa ufficiale» e chi, come osserva l’arcivescovo Celli, insisteva sul fatto che «in Cina esiste una sola Chiesa cattolica con una comunità ufficiale ed una clandestina». Oggi i confini sono sfumati, e la Radio Vaticana diffonde ogni giorno in cinese le parole del Papa, senza censure.
Un punto di svolta è stata la lettera del 2007 nella quale Benedetto XVI si rivolgeva «a tutta la Chiesa che è in Cina» auspicando «un accordo con il governo» sulla nomina dei vescovi. Pietro Parolin, che con Francesco sarebbe divenuto Segretario di Stato, ebbe già allora un ruolo fondamentale e per due volte guidò trattative riservate a Pechino. Poi nel 2009 fu trasferito come nunzio in Venezuela. Allora i vescovi in comunione con Roma erano arrivati a 110 su 115. Dal 2010 ricominciarono le ordinazioni illegittime, quattro in tutto.
Nel 2013 Francesco ha nominato il cardinale Parolin alla guida della diplomazia vaticana e le trattative sono riprese. Il resto è la telefonata del Papa al presidente cinese XI appena eletto, il permesso di attraversare lo spazio aereo della Cina nel volo di Francesco verso Seul, nel 2104, con relativo scambio di telegrammi, gli incontri tra delegazioni ed il consenso della Santa Sede ad una nomina episcopale, in autunno. La storia dirà se a Bergoglio toccherà la sorte di Francesco Saverio o di Ricci, ma l’accordo non è mai stato così vicino.