Rilanciare la chiesa in Cina l’obiettivo di papa Francesco
Il Pontefice sta chiudendo l’annosa questione dei cattolici di Pechino aperta con l’inizio della Repubblica popolare. Entro l’anno l’accordo
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 10. 03.2018)
Francesco è stato percepito, cinque anni fa, come un Papa carismatico, esterno però alla diplomazia vaticana (considerata non così decisiva ai tempi di Benedetto XVI, tanto che i governi s’interrogavano sull’utilità delle ambasciate in Vaticano). Invece gli anni di Francesco hanno visto un’intensa attività diplomatica, come nel 2014 con la mediazione nelle trattative tra Cuba e Stati Uniti. Ora Francesco sta per chiudere l’annosa questione dei cattolici in Cina, aperta dall’avvento della Repubblica popolare, disinteressata al rapporto con il Vaticano (nel 1951 fu espulso il nunzio Riberi, spostatosi poi a Taiwan presso il presidente Chiang Kai-shek, sconfitto dai comunisti). La crisi, dopo intense pressioni governative su cattolici e vescovi, cominciò soprattutto con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica nel 1957, espressione del controllo governativo sulla Chiesa.
La Chiesa cinese si divise allora in due segmenti: i cattolici «ufficiali» e quelli «sotterranei», entrambi con propri vescovi. La vicenda ha un precedente nella Rivoluzione francese, quando la Costituzione civile del clero nel 1791 dette origine alla Chiesa ufficiale, respinta dai cattolici fedeli a Roma. La questione fu chiusa nel 1801 dal concordato tra Bonaparte e Pio VII, che depose tutti i vescovi (patriottici e fedeli al Papa), per avviare una nuova procedura di nomina. La divisione in Francia durò dieci anni. In Cina, la Chiesa è divisa da settant’anni in due mondi, seppur con sovrapposizioni specie negli ultimi anni.
Se si guarda la storia della Chiesa, sorprendono i tanti decenni passati per arrivare a ricomporre i cattolici in Cina. Molto dipende da Pechino, ma non solo. Per il Papato, risolvere gli scismi è una priorità, come s’è visto dal grande impegno con i tradizionalisti di Lefèvre. Il protrarsi delle divisioni crea fossati duri da superare e soprattutto rende la Chiesa inabile a compiere la sua missione, come mostra la relativa crescita dei cattolici in Cina, pur in un terreno di mobilità religiosa. I cattolici sono oggi appena attorno ai dieci milioni, mentre gli evangelici (specie neoprotestanti) sarebbero circa settanta milioni con una grande crescita.
La questione sino-vaticana ha suscitato un dibattito quasi superiore alle dimensioni del problema. È considerata l’ultimo dossier dell’Ostpolitik, iniziata dal cardinal Casaroli. Infatti tornano le critiche fatte allora al Vaticano: svendere il martirio dei cristiani e accettare un ambiguo controllo statale. Così ha scritto George Weigel, biografo di Wojtyla, criticando la «cedevolezza» vaticana all’unisono con tante voci anglosassoni. L’accordo è percepito come smarcamento della Santa Sede dall’Occidente e dagli Stati Uniti, come faceva notare Massimo Franco. Si chiedono alla Chiesa posizioni che però i Paesi occidentali non hanno con la Cina.
Il disallineamento dall’Occidente è avvenuto pure con Giovanni Paolo II, Papa delle ragioni del Sud, ma pure dagli intensi legami (anche politici) con l’Europa e gli Stati Uniti. Che il cattolicesimo non debba essere un’agenzia religiosa dell’Occidente è linea costante dei Papi del Novecento, anche se non sempre di facile attuazione. È una realtà, prima che politica, inerente la missione della Chiesa tra culture, civiltà e regimi diversi. Non sorprende, allora, che Francesco cerchi un accordo con Pechino per dare stabilità alla Chiesa e rilanciarla, anche se un negoziato ha sempre un prezzo.
La questione ha un valore simbolico. Suscita aspre critiche tra cattolici (spiccano quelle del card. Zen di Hong Kong), severe sull’approccio «diplomatico» alla questione cattolica in Cina: vi si legge una continuità tra Casaroli e l’attuale Segretario di Stato, Parolin. Ma la diplomazia di Parolin in un mondo multipolare è per forza diversa da quella della Guerra fredda, anche se resta lo strumento negoziale (a fini pastorali però).
Si parla d’intesa sino-vaticana dal 1980, quando la via fu aperta dal cardinal Etchegaray (salutato a Pechino come «un grande funzionario di una grande religione occidentale»). Allora i cinesi - diceva il cardinale - offrivano condizioni migliori di oggi. Il negoziato procedette a salti. Si bloccò con la canonizzazione dei martiri cinesi il 1° ottobre 2000, festa della Repubblica popolare, vista dai cinesi come atto ostile. Poi nel 2009 ci fu un’altra interruzione, fino alla ripresa del negoziato nel 2013 con Francesco.
Quasi quarant’anni d’incontri e crisi insegnano che, con il tempo, il quadro negoziale s’indurisce da parte cinese. Anche perché la Cina di Xi Jinping ha un’altra dimensione rispetto al passato.
È significativo però che la Cina tratti su affari religiosi interni con un soggetto non nazionale. Mai l’ha fatto l’Urss. Mao Tse Dong, nel 1962, rispose male a Giancarlo Pajetta, che intercedeva per i cattolici: «ognuno ha gli dei del cielo del proprio paese».
L’accordo (forse entro il 2018) è una novità, ma non una clamorosa «Conciliazione» tra il Papa e Xi. Non riguarderà i rapporti diplomatici. Verterà soprattutto sul meccanismo di nomina dei vescovi (ci sarà un rappresentante vaticano non fisso a Pechino per studiare le nomine). L’intesa non verrà sbandierata, ma sarà il primo passo di un negoziato su altre problematiche. Il fatto decisivo è che consentirà, con la formazione di un unico episcopato in Cina, la ricomposizione della Chiesa, essenziale per rilanciare la presenza cattolica in un Paese che cambia. Questo è, per ora, il «modesto «obiettivo di papa Francesco.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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Federico La Sala