Alcune riflessioni per un laboratorio
di Lea Melandri (11 set. 2013) *
Nella speranza di poter essere in condizioni di venire a Paestum, dopo una brutta caduta estiva -ragione per cui non sono stata presente come avrei voluto nella discussione che si è aperta sul blog- vorrei proporre alcune riflessioni per un laboratorio. I temi indicati nella Lettera di invito sono tanti e forse potremmo tentare di accorparne alcuni, in modo da mettere in evidenza i “nessi” che ci sono tra uni e gli altri. Riconoscere la diversità degli interessi e delle pratiche che contraddistinguono oggi il femminismo - e più in generale l’impegno culturale e politico della donne - è importante, ma se ci si incontra è anche per uscire dalla frammentazione, dagli specialismi o da contrapposizioni infondate, che indeboliscono l’azione di tutte.
Per quanto mi riguarda, sono interessata a temi su cui torno insistentemente da anni e che ritengo abbiano ancora bisogno di essere approfonditi, estesi, analizzati nelle loro implicazioni più profonde e quindi più resistenti ad uscire allo scoperto.
Penso alla parte che ha ancora l’amore -una parola che sembra un tabù per il femminismo- come “copertura” del rapporto di potere tra i sessi: della violenza, della sessualità, ma anche del lavoro e del denaro.
Della questione della violenza maschile contro le donne oggi si discute molto più che in passato, ma non sembra sollevare l’attenzione che merita il fatto la violenza manifesta -maltrattamenti, stupri, omicidi- è anche la più sfuggente: sono poche le donne che ne fanno denuncia, molti addirittura non la considerano ancora un crimine, alcune vittime dichiarano di amare nonostante tutte il loro aggressore (v. Questo non è amore, Marsilio 2013).
Ora, è vero -come ci si affretta sempre a sottolineare- che “non si uccide per amore”, ma non possiamo nasconderci che l’amore c’entra, dal momento che a uccidere le donne sono quasi sempre uomini a loro legati da rapporti intimi: mariti, amanti, padri, fratelli, figli. Siamo di fronte cioè a un dominio che conserva poteri arcaici di vita e di morte, ma che nasce dall’interno delle case, delle famiglie, di quelli che sono o sono stati rapporti di coppia. E’ lì, nella sfera domestica, che le donne hanno mostrato di non voler più essere “un corpo a disposizione di altri”; ma è lì che ancora sopportano oltre ogni limite la convivenza con i loro aggressori, sperando di poterli cambiare o per paura della solitudine. Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché è negli interni delle case che tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo-figlio, il potere di indispensabilità della donna-madre e i residui di un dominio patriarcale in declino.
Che parte ha l’amore nel mantenere l’ambiguità che si annida in questi vincoli -famigliari, affettivi, sessuali- che oggi , nel venire meno dei confini tra privato e pubblico vediamo agire anche nell’economia, nella politica, nell’industria dello spettacolo e della pubblicità? Non è forse il fascino che ha ancora il sogno di una ideale riunificazione di “nature” diverse e complementari a rendere così difficili la volontà e la fantasia necessarie per ripensare il piacere e la responsabilità del vivere (quella che abbiamo chiamato “la rivoluzione necessaria”) fuori dalla divisione dei ruoli, dalle gerarchie di potere e di valore che hanno segnato disastrosamente la relazione uomo-donna, ma anche natura-storia, individuo-società?
Col venire meno dei confini tra privato e pubblico, col prevalere delle logiche di mercato e di consumo, sono venuti allo scoperto nessi che ci sono sempre stati tra i poli opposti della dualità, altri nuovi si sono creati: tra sessualità e economia, sessualità e politica, sessualità/amore e denaro, amore e lavoro. L’amore non ha più la potenza illusoria di mantenere in ombra il dominio maschile, ma se si ha fretta di smascherarlo, si rischia di non vedere quanto ha contato e conta ancora nel render le donne “complici” -inconsapevoli e incolpevoli- dell’oppressione che subiscono.
Alcuni esempi di modificazioni e permanenze li possiamo vedere nella femminilizzazione della sfera pubblica e nella crescente commercializzazione della sessualità e della vita intima.
La “valorizzazione delle doti femminili” - sia di carattere estetico/erotico o materno - viene oggi dalla nuova economia, dal mercato, dagli intrattenimenti erotici dei politici, o dalle donne stesse come rivalsa a secoli di marginalità, e sembra avere come esito l’eclissarsi della conflittualità tra i sessi. “Professionalità sensuale”, “intelligenza emotiva”, “pensiero emozionale” sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore quando si trasferisce dal rapporto di coppia all’ambito lavorativo.
Ma il “mito dell’interezza” lo si ritrova, imprevedibilmente, anche nel business del sesso, nella commercializzazione della sessualità, nella “normalizzazione” della pornografia.
Rimando per questo all’interessante analisi di Giorgia Serughetti, Uomini che pagano le donne (Edizioni Ediesse, Roma 2013):
“Tra intimità e attività economiche esiste un continuum anziché una dicotomia. Il riferimento è alle molte figure che offrono servizi di cura retribuiti - colf, baby sitter- ma anche surrogati a pagamento dell’intimità sessuale e delle relazioni romantiche. Sono le esperienze di ‘fidanzate a noleggio’, sotto la dicitura di accompagnatrici, escort e top escort. Si tratta di servizi che non si limitano al soddisfacimento di impulsi o fantasie sessuali, ma offrono parvenza di un corteggiamento, di un rapporto di cura affettivo e di una reciprocità emozionale e sentimentale. L’autenticità, il romanticismo, l’intimità diventano così oggetti di consumo.”
Dobbiamo concludere a questo punto che le donne cominciano a non considerare più il lavoro domestico, la sessualità al servizio dell’uomo un “dono d’amore”? Che sono più consapevoli di aver dato cure, affetto, sostegno morale e piacere in cambio non dell’amore che desideravano e di cui avevano bisogno, ma di denaro, sopravvivenza, oppure di quel successo e potere che non hanno trovato altrimenti?
Un cambiamento rispetto ai ruoli e alle forme tradizionali del potere maschile c’è sicuramente, anche se tutt’altro che “neutro”. Ma come chiamare le nuove forme di complicità che vedono le donne nella posizione non più solo di “oggetti”, “corpi”, “merci”, ma “soggetti” di un volontario asservimento all’immaginario maschile, protagoniste di una rivalsa che si avvale degli stessi attributi - la seduzione, la cura materna - per i quali sono state sfruttate e violate dall’uomo per millenni?
Se ci sono altre a cui interessano questi temi, si potrebbe dedicarvi uno dei laboratori.