La legge 40, i compiti a casa
di Ida Dominijanni (il manifesto, 29 agosto 2012)
Da un governo così europeista da accettare qualunque diktat neoliberista perché «ce lo chiede Bruxelles» e così preoccupato per la nostra salute da tassare la Coca cola perché ci fa ingrassare ci aspetteremmo salti di gioia per la sentenza della Corte europea di Strasburgo che distrugge uno degli assurdi divieti della legge italiana sulla procreazione assistita tacciandola di incoerenza e autorizzando l’accesso alla diagnosi preimpianto di una coppia non sterile, portatrice sana di una malattia, la fibrosi cistica, trasmissibile al feto.
Il ministro della salute Renato Balduzzi, invece, traccheggia: che ci fosse contraddizione fra la legge 40 (che vieta la diagnosi preimpianto) e la legge 194 (che consente l’aborto terapeutico se il feto risulta affetto da una malattia che la suddetta diagnosi potrebbe individuare anzitempo) era problema noto (ma perché allora non si è cercato di rimuoverlo?), però bisogna aspettare le motivazioni della sentenza, e poi rifletterci sopra, sì, ma bilanciando i due principi della soggettività giuridica dell’embrione e della salute della madre.
Ora, in primo luogo la sentenza è chiarissima anche senza le motivazioni: la legge 40 è sostanzialmente da buttare e riscrivere, sia perché limita l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita alle sole coppie sterili e dunque ne vieta un uso terapeutico più ampio come quello richiesto dai coniugi che hanno fatto ricorso alla Corte, sia per via dell’incompatibilità di cui sopra con la legge sull’aborto: e a conti fatti, invece di promuovere contrasta, scrive la Corte, il diritto di ciascuno/a al rispetto della propria vita privata e familiare.
In secondo luogo, il bilanciamento fra i due principi della (opinabilissima, come il ministro dovrebbe sapere) soggettività giuridica dell’embrione e della salute della madre, bilanciamento sempre tirato in ballo per demolire la 194, in questo caso non c’entra nulla: qui il principio da tutelare, di puro buon senso, è uno solo, cioè la possibilità di usare la fecondazione in vitro e la diagnosi preimpianto per evitare di trasmettere al feto una malattia (i casi sono molti e frequenti) di cui i genitori siano portatori. Un uso illuminato, per così dire, della tecnologia, e non l’unico, che la legge 40, scritta - male - sulla base di un oscurantismo fobico, impedisce.
Accettando il ricorso di Rosetta Costa e Walter Pavan, già genitori di una bambina ammalata di fibrosi cistica e già costretti all’interruzione di una seconda gravidanza per la stessa ragione, la Corte di Strasburgo non fa altro che rimuovere un pilastro della legge 40 duramente contestato durante il suo tormentato e isterico iter parlamentare, poi incrinato da un parziale intervento dell’ex ministra Livia Turco e già demolito nel 2010 da una sentenza del tribunale di Salerno a tutela di una coppia portatrice sana di atrofia muscolare.
La sensatezza dei commenti favorevoli, di parte scientifica e politica, e l’insensatezza delle reazioni proibizioniste (la solita Eugenia Roccella e l’imperitura associazione cattolica Scienza e vita) confermano l’immobilismo granitico del dibattito italiano sulle materie cosiddette «eticamente sensibili». L’Europa, dal canto suo, si conferma bifronte: tanto sorda, politicamente, ai diritti sociali, quanto attenta, giuridicamente, ai diritti di libertà.
Per il governo dei prof, ecco una buona occasione per fare i famosi compiti a casa: provarsi a riscrivere con qualche serena competenza tecnica una legge fin qui tecnicamente impresentabile