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FILOSOFIA, POLITICA, E "NUOVO REALISMO". IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....

RIFARE I CONTI CON KANT: USCIRE DAL CORTILE DI GENTILE. Sul "nuovo realismo", un intervento di Emanuele Severino (contro Vattimo e Markus Gabriel) e la risposta di Maurizio Ferraris, con note - a c. di Federico La Sala

"L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni".
martedì 25 settembre 2012 di Federico La Sala
[...] nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni (...)

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> RIFARE I CONTI CON KANT: USCIRE DAL CORTILE DI GENTILE. ---- Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo. La replica di De Caro alla recensione di Bentornata realtà

venerdì 23 novembre 2012


-  Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo
-  “Non basta a tranquillizzarci che sia una convenzione”
-  Il punto cruciale: se si rinuncia ad affermare che tutto è interpretazione si può discutere la realtà
-  La replica di De Caro alla recensione di Bentornata realtà

-  di Mario De Caro (la Stampa, 23.11.2012)

«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.

Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo ). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.

In primo luogo mi è parso bizzarro che nel merito dell’antologia Vattimo si limiti a dire che essa contiene «scritti di vari autori». Tra questi «vari autori» figurano alcuni dei maggiori filosofi contemporanei (da Putnam a Eco, da Searle a Marconi), che forse avrebbero meritato una qualche menzione - al pari almeno di Arbasino, del quale Vattimo riporta il giudizio «Signora mia non c’è più religione», evidentemente ineludibile per comprendere la discussione contemporanea sul realismo filosofico.

In realtà, l’impressione è che Vattimo non abbia nemmeno aperto Bentornata realtà - o se l’ha fatto, ha tenuto il segreto ben chiuso in sé. Ed è un peccato, perché in quel volume ci sono discussioni e argomentazioni che potrebbero interessarlo. Nel suo ellittico pezzo Vattimo per esempio ha scritto: «Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? ». Da Wittgenstein a Quine, da Habermas a Kripke, sono decenni che nel mondo filosofico si discute dello statuto epistemologico delle convenzioni.

Non avevo mai letto prima però che, siccome la convenzionalità del riferimento al metro di Sèvres è inoffensiva, allora non dovremmo preoccuparci del fatto che tutto è convenzionale. Cosa esattamente ciò significhi non mi è chiaro: è una sorta di argomento induttivo? Oppure vuole suggerire che il convenzionalismo in altri campi, per esempio in morale, è tanto poco pericoloso quanto quello rispetto alle unità di lunghezza? (Come se uno dicesse: «Io, a differenza di te, uso le yards invece dei metri e credo nella liceità dell’uxoricidio, tanto è solo questione di convenzioni»).

Vattimo scrive poi: «Abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no». Magari mi sono perso qualcosa, ma non capisco bene chi nell’immensa discussione internazionale sul realismo abbia mai sostenuto la tesi che Vattimo critica. Tra i realisti contemporanei, Hilary Putnam è forse quello che ha indagato più in profondità lo statuto epistemologico delle convenzioni. E non solo rispetto ai semafori (che forse non sono il caso teoreticamente più urgente), ma in etica, in economia, in scienza. E a Putnam mai è passato per la mente di sostenere che siccome sostiene posizioni realiste in alcuni ambiti, allora dovrebbe negare il ruolo delle convenzioni in tutti gli ambiti.

C’è poi un punto cruciale che Vattimo trascura: la discussione contemporanea sul realismo non è una questione del tipo tutto-o-niente, come invece sembra essere l’antirealismo radicale che egli professa. Ciò che è interessante è proprio che, se si rinuncia a facili formule tipo «tutto è interpretazione», si può finalmente tornare a discutere con serenità di questioni come la realtà delle valutazioni morali, delle teorie scientifiche, dei giudizi politici. E ciò vuol dire che in alcuni casi si potrà prendere una posizione realista, in altri una posizione antirealista.

Nel suo articolo Vattimo si chiede infine con una qualche angoscia: «perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la “realtà” così com’è? ». Ecco, anche su questo Vattimo potrebbe utilmente leggere l’articolo di Putnam in Bentornata realtà (così non lascia nemmeno la copia intonsa). Scoprirà che, sebbene abbiamo ottime ragioni per ritenere che le nostre teorie subatomiche descrivano la realtà fisica, ciò non vuol dire affatto che le teorie scientifiche descrivano, e meno ancora che spieghino, tutta la realtà. Magari sarà contenta anche la signora di Arbasino.


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