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ITALIA: STORIA E POLITICA (1513-2013). MACHIAVELLI CONTRO OGNI TIRANNIA E CONTRO OGNI POPULISMO: C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"!!!

LA QUESTIONE DELLO STATO: "IL PRINCIPE" O MEGLIO "DE PRINCIPATIBUS" (1513). UN OMAGGIO A NICCOLO’ MACHIAVELLI. Una nota di Sergio Romano - con un saggio (pdf) di Federico La Sala

Lascio al lettore decidere se fra l’epoca di Machiavelli e la nostra corra qualche analogia. Mi limito a osservare che questo Stato apparentemente unitario è un mosaico di lobby, corporazioni, patriottismi municipali, irresponsabilità regionali e sodalizi più o meno criminali (...)
mercoledì 23 gennaio 2013 di Federico La Sala
[...] Credo che la chiave di cui il lettore ha bisogno per orientarsi fra tante interpretazioni di Machiavelli sia nascosta nella sua vita. Il Principe è il risultato delle esperienze che l’autore aveva fatto negli anni fra il 1498 e il 1512 quando era stato cancelliere e segretario dei Dieci di Libertà, l’organo che nella Repubblica fiorentina era contemporaneamente ministero degli Interni, degli Esteri e della Guerra. Aveva viaggiato in Italia e in Europa, aveva frequentato le corti (...)

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> LA QUESTIONE DELLO STATO: "IL PRINCIPE" O MEGLIO "DE PRINCIPATIBUS" (1513). --- Il migrante «mobile» che mette in crisi la staticità dello Stato (di Franco Farinelli)

lunedì 18 gennaio 2016

Il migrante «mobile» che mette in crisi la staticità dello Stato

di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 17.01.2016)

Che fine hanno fatto gli abitanti di Parigi? Se lo chiedeva Walter Benjamin a proposito delle foto scattate da Eugène Atget nell’Ottocento, del tutto prive di persone quasi che la città fosse deserta, una scena vuota. E metteva in guardia, nella sua Piccola storia della fotografia, contro il «nascosto carattere politico» di tali immagini, di cui non riusciva però a decifrare la natura, la ragione. Per rispondere sarebbe bastata un’occhiata al frontespizio del Leviatano di Hobbes, il testo cui più di ogni altro lo Stato moderno deve la propria fondazione teorica, apparso a metà Seicento: un’epoca in cui la prima pagina di un libro valeva come sintesi illustrata di tutto il contenuto, al punto che Cartesio poteva vantarsi di non aver bisogno di aprire un volume per venire a capo del problema posto dal titolo.

A prima vista il corpo del Leviatano, emblema dello Stato territoriale centralizzato come lo chiamava Carl Schmitt, sembra soltanto villoso, oppure formato da molteplici scaglie. In realtà la gigantesca forma del mostruoso principe, che brandisce sul mondo le insegne del potere sia religioso che civile, risulta costituita dalla massa dei singoli corpi dei sudditi, tutti privi di volto perché ritratti di spalle, a segno dell’assenza di ogni loro reciproca differenza al cospetto del nuovo «Dio mortale». Soltanto il capo e le mani (gli organi del pensiero e dell’azione) della potentissima creatura sono fatti di una sostanza non umana, del tutto estranea rispetto all’ingombro materiale della somma degli individui: i cui apparati fisici, parti coerenti e solidali dello stesso unico insieme, già anticipano, nella loro reciproca equivalenza e nella intercambiabilità della loro disposizione, la logica della produzione di serie, il cui primo annuncio i filosofi di Francoforte scorgeranno invece nelle macchine erotiche descritte da de Sade.

Diversamente però da quel che accade in quest’ultime, nel corpo del Leviatano i soggetti debbono restare immobili o almeno in tal modo vengono concepiti, pena la crisi della staticità dello Stato stesso, che si chiama così proprio perché non si muove.

Fu Machiavelli, all’inizio del Cinquecento, il primo ad adoperare tale termine nel significato di una formazione politica che coincide con un’estensione territoriale: ancora nel Quattrocento «stato» era soltanto sinonimo di condizione, quella privilegiata di un essere umano dotato di particolari e superiori prerogative dal punto di vista dell’esercizio del potere, a partire da quello di dire giustizia.
-  Come un soggetto si sia oggettivato trasformandosi in una cosa, come la parola che designa un potente sia passata invece a distinguere l’ambito d’esercizio del suo potere (di ciò infatti si tratta) è un processo che ancora attende puntuale ricostruzione. Ma intanto è proprio da tale sparizione del soggetto che deriva l’assenza di persone nelle fotografie che a Benjamin facevano problema, e di cui intuisce la funzione politica: come nelle foto Alinari su cui abbiamo studiato al liceo Storia dell’arte, gli uomini e le donne sono assenti perché stanno altrove, a comporre il corpo dello Stato, di cui le immagini stesse sono più o meno consapevole e mediata espressione. E oltre che invisibili gli atomi di cui il Leviatano si compone sono immobili perché se è vero che lo Stato moderno non ha territorio ma è il territorio, come insegnano i giuristi, quest’ultimo è una costruzione geometrica, uno spazio propriamente detto, al cui interno ogni cittadino corrisponde a un punto, dalla cui supposta stabilità la stabilità (la staticità) dell’intero sistema dipende. Da dove altrimenti deriverebbe l’uguaglianza (l’egalité) dei cittadini? Accadde l’11 settembre, del 1789: per la prima volta, a Parigi, il voto dell’Assemblea venne espresso singolarmente, non più per «ceto» ma per «testa», appunto in omaggio al principio dell’equivalenza generale dei punti geometrici sul piano.

Ecco perché le figure del migrante e del rifugiato mettono davvero in crisi l’ordinamento politico esistente: perché la loro visibilità e mobilità, ripristinando le più immediate funzioni antropologiche, minano prima d’altro la fondamentale finzione (la funzionale idealizzazione, il «congelamento metonimico» direbbe Arjun Appadurai) sulla cui base l’intero sistema statale moderno è stato costruito.


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