di Raoul Bruni (Alfabeta2, n. 25, 06.12.2012)
Sono molte le ragioni per cui vale la pena (ri)scoprire oggi la straordinaria figura di Elvio Fachinelli. Attivo nel campo della pedagogia antiautoritaria, lo psicoanalista trentino fondò l’importante rivista (e casa editrice) “L’erba voglio” e si impegnò in prima persona nell’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano; pubblicò pochi ma fondamentali volumi, oggi inseriti nel catalogo Adelphi, ai quali però vanno aggiunti molti sorprendenti scritti estravaganti, come quelli raccolti, per l’appunto, in questo libretto Su Freud. Fachinelli, che ne tradusse varie opere, a incominciare da L’interpretazione dei sogni, instaurò col padre della psicoanalisi un dialogo ininterrotto, tra fedeltà e slanci eterodossi, condotto in sostanziale sintonia con quel “ritorno a Freud” propugnato da Jacques Lacan. Ma a qual era il Freud a cui tornare, secondo Fachinelli?
Nel denso ritratto di Freud, risalente al 1966, che inaugura il volumetto, si punta l’accento, prima ancora che sullo scienziato, sull’uomo e sullo scrittore: «Il rapporto tra il creatore e la sua opera è in questo caso [nel caso di Freud] assai vicino al legame di figliolanza carnale, per così dire, che si stabilisce fra lo scrittore e il suo libro, fra il pittore e il suo quadro, che non al riferimento indiretto dello scienziato con la sua scoperta. C’è qualcosa di irripetibile, che conferisce per sempre alla costruzione freudiana un carattere di unicum culturale e che genera la sempre risorgente difficoltà di ‘collocarla’ positivamente tra le altre scienze».
Del Freud “scrittore” Fachinelli prospetta (in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” nel 1986, incluso in questo libretto) anche un suo proprio canone, inidcandone persuasivamente il vertice nei casi clinici, definiti «dei quasi racconti, dei nuclei narrativi ora più ora meno elaborati» (intuizione che prefigura la recente e felice iniziativa, di Mario Lavagetto, di ripubblicarli, nella collana einaudiana dei “Millenni”, sotto il titolo di Racconti clinici). Sotto questo aspetto, verrebbe da dire, Fachinelli fu perfettamente fedele a Freud, dato che molti dei suoi stessi scritti sono caratterizzati da un evidente afflato narrativo.
Le distanze tra l’autore e il suo nume titolare vengono invece in luce in un articolo in margine al celebre saggio del 1915 in cui Freud, dialogando con un poeta identificabile con Rilke, fornisce una giustificazione filosofica del dramma della caducità. Freud collega la questione della caducità al disastro bellico che allora incombeva sull’Europa, sostenendo che, una volta trascorsa questa terribile crisi, l’uomo avrebbe ricostruito «ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima».
A differenza di tutti i precedenti commentatori, Fachinelli non sottoscrive la conclusione freudiana, ma anzi osserva: «Il mondo solido e duraturo che Freud si augurava sorgesse dalla catastrofe non sorse affatto. Al contrario. In Europa sorsero nazismo e fascismo e con essi scoppiò una guerra ancor più spaventosa della prima». In questa cogente confutazione della tesi freudiana, si intravede la tipica inquietudine del pensiero psicoanalitico fachinelliano, intrinsecamente riluttante ad ogni soluzione consolatoria dell’enigma dell’esistenza. Fachinelli respinge infatti la tendenza all’«onniesplicabilità, rovinosamente attiva sia dentro l’analisi stessa, sia all’esterno, nel comune gergo psicoanalitico» e auspica invece un’idea quasi zen dell’analisi, basata sull’«elemento sorpresa»: «tutto può essere attivo e fecondo [...] se nasce come sorpresa inaspettata».
L’articolo da cui sto citando (che chiude il volumetto) risale al 1989, l’anno della morte di Fachinelli, e mostra come questi abbia saputo coraggiosamente spingersi ben oltre Freud; d’altronde, in quel periodo, egli stava concludendo La mente estatica, la sua opera testamentaria, incentrata su un’area tematica estranea non solo al freudismo, ma a tutta la tradizione razionalistica occidentale.