Massimo Cacciari, a proposito di potere. Riflessioni e paradossi
Nel suo saggio i passi più significativi della tradizione teologica ci aiutano a comprendere meglio
di Giuseppe Cantarano (l’Unità, 24.03.2013)
CHE COS’È IL POTERE? QUAL È LA SUA NATURA? E perché Tutti noi siamo - volentes o nolentes - inclini non solo a esercitarlo, ma a obbedirvi? Non ci sottomettiamo, forse - più o meno volentieri al potere politico? Non obbediamo, forse - più o meno volentieri - alle sue leggi? E ancora: a cosa serve il potere? Qual è la sua funzione? È immaginabile una auctoritas politica del tutto separata e distinta dalla potestas teologica? Non è forse vero - come ha affermato Carl Schmitt - che le categorie politiche si limitano a secolarizzare, a laicizzare un originario impianto teologico? Sono un po’ questi i radicali interrogativi sollevati dall’ultimo bel libro di Massimo Cacciari (Il potere che frena, Adelphi, pp. 211, euro 13,00).
Che vi sia un potere, che vi sia una Legge è un miracolo. E che vi sia chi si ribella, non è che trita banalità, scriveva il grande compositore austriaco Arnold Schönberg. Molto caro, del resto, a Massimo Cacciari. Ed è sull’esistenza di questo «miracolo» che il filosofo veneziano riflette nel suo libro. Misurandosi con quel celebre passo attribuito a san Paolo, compreso nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Un passo controverso. Di difficile, ardua interpretazione. È qui che balena forse per la prima volta nella storia dell’Occidente - l’oscura tematizzazione di quel «miracolo». Di quell’irresolubile enigma che è il potere. Che è la Legge. Come poi ci racconterà Kafka.
Nel primo grande documento cristiano sulla politica, che è la Lettera ai Romani, san Paolo raccomanda obbedienza al potere politico. Poiché ogni potere politico ha ricevuto da Dio il mandato di proteggere il bene. E di arginare il male: «Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio» (13, 1-2).
Del potere politico non possiamo fare a meno, ci dice san Paolo. Non fosse altro perché il potere politico - l’Impero romano, nel caso specifico rappresenta un «freno» nei confronti di una società tendenzialmente caotica, disordinata, anarchica. Il potere, pertanto, sembrerebbe avere un timbro esclusivamente positivo. La sua funzione sembrerebbe volta esclusivamente al bene. Giacché è quella di contenere, di arginare, di frenare il dilagare del male nella società. E tuttavia, le cose non stanno così, ci dice Cacciari.
Infatti, del potere come «freno» (katechon, in greco) si fa cenno anche nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Su cui Cacciari esercita un’acutissima e penetrante esegesi. Laddove è scritto: «E ora conoscete ciò che trattiene (to katechon) la sua apocalisse, che avverrà a suo tempo. Già, infatti, il mistero dell’iniquità è in atto; ma chi trattiene (ho katechon) trattenga, precisamente fino a quando non venga tolto di mezzo” (2, 6-7).
Rispetto all’univocità della Lettera ai Romani, qui il potere assume invece un volto «diabolico», diciamo così. Nel senso letterale del termine: ingannevole, ambivalente, enigmatico. E a suo modo, tragico. Poiché viene concepito come una forza - non è chiaro se espressione di un soggetto o di una cosa - che per trattenere, per frenare il trionfo del male è costretta, contemporaneamente, a ritardare la definitiva vittoria del bene. A ritardare, pertanto, anche l’annientamento dello Spirito dell’empietà. Dunque del male. Fino a quando anche questo freno che trattiene sarà «tolto di mezzo», spazzato via, prima della parusia del Signore.
Come contenere in uno - si chiede Cacciari - queste due paradossali, tragiche dimensioni? Paradossali, tragiche dimensioni di ogni sovranità politica. Ogni potere - scrive Cacciari - «è chiamato a esprimersi come mediazione. Il mediatore dispone dell’effettuale comando, ma non risolve in sé immediatamente ogni auctoritas, non ne è autarchicamente fonte e sede. Il potere rappresenta - e viene così ad assumere sempre dal rappresentato la propria autorità». Insomma, nessuna potenza teologica detiene l’assoluta potestas su questa terra. E credersi idolatricamente eterna. Così come nessuna potenza politica detiene l’assoluta auctoritas. Senza la quale, tuttavia, il sovrano si ridurrebbe a semplice funzionario di un apparato burocratico-amministrativo. Che difficilmente riuscirebbe a legittimare le sue decisioni.