Inviare un messaggio

In risposta a:
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!

VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile) - di Federico La Sala

(...) al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità!
sabato 6 gennaio 2024
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, che James (...)

In risposta a:

> RILEGGERE VICO. --- LA TEOLOGIA DEL "FARSI DIO DI DIO", BRUNO FORTE, E LA "LUMEN FIDEI" (di Vincenzo Vitiello - Ma la «luce della fede» non puà accecare il mistero)

sabato 20 luglio 2013

Ma la «luce della fede» non puà accecare il mistero

di Vincenzo Vittiello (l’Unità, 19 luglio 2013)

Lumen fidei , la prima enciclica di papa Francesco, l’ultima di Benedetto XVI, riprende il tema, già affrontato da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio , per due ordini di ragioni: perché la fede è il problema centrale del cristianesimo in rapporto alla sua radice ebraica, e perché è la risposta del cristianesimo alla crisi del mondo contemporaneo. Le due ragioni sono strettamente legate. Il punto 23 dell’Enciclica ricorda l’episodio biblico narrato in Isaia 7, 9: al re Acaz che voleva far alleanza con l’Impero degli Assiri, per proteggersi dai suoi nemici, il profeta, invitandolo a confidare solo nell’aiuto di Dio, l’ammoniva: «Se non crederete ( ta’aminu ) non resterete saldi ( te’amenu )».

Ma nella versione (greca) dei Settanta si legge: «Se non crederete, non comprenderete». Il Pontefice, nel rilevare la differenza tra i due testi, ne evidenzia insieme l’«affinità»: il «comprendere» di Isaia - scrive - si riferisce all’agire di Dio, a ciò che dà stabilità alla «vita dell’uomo e (alla) storia del suo popolo». E cos’è la fede se non l’affidarsi a Dio? Il riferimento all’antico spiega il presente. La fede, nell’età di crisi della modernità, e cioè non solo delle ideologie ma più ampiamente del rapporto sapere-potere, è riparo sicuro per l’uomo. Il lumen fidei dà quello che la ragione umana non è in grado di dare, perché viene dall’Alto e dall’Altro: non è la soggettiva presunzione della ragione umana che volendosi universale ha prodotto solo tirannia e guerra, come testimonia il secolo mal definito «breve», dacché non pare affatto sia «passato». La fede, che viene dall’Alto e dall’Altro, che è Amore oblativo, Agape, andando incontro a tutti e a ciascuno, illumina e non costringe. È, pertanto, intrinsecamente plurale - spiega il teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, nella sua introduzione-commento all’Enciclica (La Scuola, Brescia). Le braccia della Chiesa di Roma si aprono al mondo. Alla storia, all’uomo e agli uomini. Alle altre fedi religiose. Nulla escludono, con tutti e su tutto dialogano.

Le parole che ricorrono più di frequente in questa Enciclica sono: fede, ragione, Verità, visione. Per leggere «mistero» bisogna andare oltre la metà del testo, e la parola non ricorre che quattro volte, di cui una al plurale: «I misteri della morte, della resurrezione e della ascensione al Cielo» di Cristo (p. 48). Mistero peraltro aperto alla ragione, che con la sua «propria disciplina» è in grado di esplorarne «le insondabili ricchezze». E alla ragione del credente è aperto anche «il segreto più profondo di tutte le cose»: «la comunione divina» (pp. 60-61). Non il Mistero avvolge e compenetra di sé la fede; bensì la fede illumina il Mistero.

Ma è luce troppo forte, la luce di questa fede, che si pone sullo stesso piano dell’avversario che combatte. Ha infatti la stessa pretesa arcontica della ragione che accusa di idolatria. L’insistenza sulla fede che o è una o non è fede, rende vana l’apertura alle altre religioni. La stessa alterità di Dio è dubbia, se poi di Dio si dice che è Conoscenza, Potere, Amore. Questa teologia rischia - per dirla con Vico - di Dei Deum se facere : di farsi Dio di Dio.

Certo dimentica che Dio è sì Amore, ma non solo Amore: «Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù» (Malachia, 1, 2-3). E non solo l’Antico Testamento parla dell’ orghè thoû theoû , dell’ira di Dio, anche il Nuovo: «Non crediate ch’io sia venuto a portare la pace su questa terra; non la pace sono venuto a portare, ma la spada» (Mt, 10.34). Se Dio, come Anselmo, filosofo grande, e santo della Chiesa di Roma, ci ha insegnato non è solo ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma è anche ciò che è maggiore di quanto si possa pensare, allora tutto ciò che diciamo di Dio definisce solo noi: i nostri limiti. Che sono tali se ed in quanto non vengono assolutizzati, cioè se ed in quanto riconoscono il Mistero.

È, questa, l’esperienza della fede che non pretende di vedere dalla prospettiva di Dio, ma resta nella sua umana finitezza, particolarmente quando si sente destinataria di un dono che la trascende. Questa fede non può non chiedersi dove termina il dono e dove inizia la responsabilità di chi ha ricevuto il dono. L’accoglienza del dono è altra dal dono o non è pur essa parte del dono? Ha senso parlare di una fede non accolta? Domande antiche che rendono la fede debole, di quella debolezza che Paolo esaltava, e che il Santo di Assisi fece regola della sua vita.

Questa fede debole, il cui lume non splende più della luce di una candela, non accoglie l’altro in sé, non l’abbraccia, non lo stringe a sé, gli vive accanto. Non dialoga con lui, prega accanto a lui, ciascuno con le proprie preghiere, ciascuno volgendosi al suo Dio. Accanto a chi non ha parole di preghiera, né Dio a cui rivolgersi. Nell’ultima parte dell’Enciclica, ove pure è ancora presente la «fede» nell’unicità della fede, s’avvertono altri toni, risuonano altre parole, emergono altri rapporti: a quello tra fede e verità, fede e visione, succede l’altro, più legato alla fragilità dell’amore umano, il rapporto tra fede e sofferenza, fede e speranza. La speranza che non vede, perché quella che vede non è speranza (Rm, 8.24). A Lampedusa Papa Francesco ha detto «noi non sappiamo più piangere». Sunt lacryme rerum . Se ha da esserci «consolazione», se proprio non sappiamo farne a meno, che almeno sia questa, che spezza ogni cerchia dell’umano.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: