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VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!

VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile) - di Federico La Sala

(...) al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità!
sabato 6 gennaio 2024
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, che James (...)

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> RILEGGERE VICO. --- SCIENZA E UMANESIMO. Un "appello" pedante e libresco. Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito "sulle scienze umane" (di Michele Dantini)

mercoledì 15 gennaio 2014

Un "appello" pedante e libresco. Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito "sulle scienze umane"

di Michele Dantini

Storico dell’arte contemporanea, critico e saggista *

Siamo certi che le discipline umanistiche possano nutrirsi di se stesse e insieme pretendere di conservare rilievo politico? O che gli attuali assetti scientifici e istituzionali debbano valere anche per le giovani generazioni? L’ Appello per le scienze umane di Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito si guarda indietro con nostalgia mentre dimentica di delineare innovative connessioni tra cultura critica, scienza e tecnologia (per non parlare di Rete o digitale).

Il ruolo delle Humanities è concepito con esclusivo riferimento alla memoria nazionale, in un’impenitente riedizione della figura risorgimentale dell’intellettuale vate. La specificità - o meglio il "primato" - italiano è invocato in polemica con il "progressismo illuminista e romantico" di Martha Nussbaum e gli intellettuali angloamericani a lei vicini. Alla capacità di Nussbaum di mobilitare un’ampia platea internazionale in merito a un problema tutt’altro che locale, cioè l’offensiva neoliberista contro l’educazione umanistica, Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito rispondono sollevando la richiesta di eccezione. Chiudono così la discussione in una riserva culturale.

Chiamato a impegnarsi in un interminabile esercizio di anamnesi, il pensiero dell’"origine" smarrisce ogni perspicuità e prontezza nel confrontarsi con processi storici concreti. Nell’Appello le "giovani generazioni" compaiono solo perché (con condiscendenza mista a ripugnanza e terrore) se ne deplorano la mancata formazione o l’infima cultura. I rari compagni di viaggio che i firmatari si scelgono con superstiziosa meticolosità appartengono alla generazione che va dai settanta agli ottanta (e oltre). Si fa ampio ricorso a retoriche identitarie, incuranti di distinguere un patriottismo civico e collaborativo dall’avocazione a sé di gratificanti ruoli senatoriali. Si sarebbe tuttavia dovuto mostrare maggiore attenzione al contesto economico e occupazionale. La domanda di professioni qualificate giunge oggi dalle imprese tecnologiche, non dallo Stato.

Il rapporto delle Humanities con scienza e tecnologia è considerato solo difensivamente, sul presupposto (a mio avviso fuorviante) della fatale distruttività di orizzonti culturali post-identitari. "Le discipline scientifiche", leggiamo, "le matematiche o l’ingegneria elettronica, la biologia molecolare o la geologia, sono dovunque le medesime, dovunque eguali a se stesse, e non a caso tendono sempre di più a esprimersi dovunque in una medesima lingua: l’inglese". L’affermazione riflette un punto di vista tanto semplificato e banale da destare non poche perplessità. Si è davvero a conoscenza di ciò di cui si parla? Ne dubitiamo. E’ sbagliato presupporre che nella ricerca scientifica e tecnologica non abbiano luogo processi linguistici e immaginativi complessi. Ed è limitativo ritenere che le discipline storiche, filosofiche e soprattutto letterarie abbiano repertori prefissati e immutabili. E’ vero il contrario: il pensiero critico (l’indagine "socratica" di Nussbaum) trae alimento proprio dal confronto con la cultura tecnica e scientifica.

In che modo le competenze umanistiche, opportunamente trasformate, possono contribuire a una corroborante messa a fuoco delle politiche del turismo, dell’industria creativa, digitali e del patrimonio? Non è dato sapere, eppure è proprio questo che si vorrebbe sapere. Ci si preoccupa del paesaggio e dell’eredità culturale pur senza nominare chi, tra gli storici dell’arte, si è più battuto in questi anni per una migliore cultura della tutela. Ma il punto di vista, mai posto in discussione, è quello di chi, con arroganza forse preterintenzionale, si autoproclama detentore esclusivo di conoscenze politiche, storiche e sociali.

Gli estensori dell’Appello non sembrano cogliere l’enormità delle mutazioni istituzionali, cognitive, neurali che l’ubiquità dei gadget va prefigurando per ciascuno di noi. Non c’è alcuna necessità di indulgere alla detestabile retorica dei "nativi digitali" per comprendere come l’interazione tra mente e macchina ("intelligente") determini inediti processi di adattamento bioevolutivo e imponga di modificare in profondità le gerarchie dei saperi. Al pari di psicologi cognitivi, neuroscienziati o tecnologi "critici", gli umanisti possono partecipare utilmente al dibattito sull’innovazione tecnologica. O meglio: hanno l’obbligo di farlo. E’ loro compito contribuire alla manutenzione di un’opinione pubblica informata e indipendente o incoraggiare l’abitudine al libro, alle buone pratiche argomentative e alla scrittura.

L’assenza di un "oggetto" disciplinare rigidamente precostituito può costituire un vantaggio specifico, a patto però che ci si impegni a maturare competenze duplici e ci si spinga di tanto in tanto al di fuori del logoro recinto dei saperi antiquari. La contrapposizione tra competenze storiche e competenze scientifiche o tecnologiche non ha in sé niente di "umanistico": semmai di corporativo. Denuncia inoltre un allarmante deficit di comprensione storica e (per così dire) epistemologica del presente.

L’attitudine all’autocommiserazione affiora stridula e petulante. I "decisori" ci ignorano, questa la tesi dell’Appello; e l’attuale classe politica è sprovvista di competenze (o sensibilità) umanistiche. Non intendo certo negare la circostanza, al contrario. Osservo solo che una qualsiasi dimostrabile ratio economica è assente dal testo e che elementi congiunturali tanto decisivi quanto drammatici, disoccupazione e sottoccupazione giovanile ad esempio, sono ignorati dai tre intellettuali. Come difendere l’occupazione qualificata nell’ambito delle professioni culturali? Questa è la domanda che una riflessione politico-istituzionale responsabile dovrebbe stabilire come prioritaria. Perché tanta insensibilità al tema del lavoro? Se bene intesa, la formazione umanistica ha il compito di debellare culture libresche e dissociative, in definitiva autoritarie.

Si rimpiange il liceo classico d’antan, luogo di selezione delle élite gentiliane e postgentiliane. Il latino, scrivono Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito con trepida metafora amniotica, è il "grembo linguistico nel quale più di metà della storia europea si inscrive". Forse: ma questo non rende meno affascinanti o necessarie, per un paese culturalmente retrivo come l’Italia, la fisica quantistica, l’etologia cognitiva o gli studi culturali.

Infine: appare scientificamente scorretta l’attitudine a ignorare debiti intellettuali. Si contesta l’ANVUR: ma si dovrebbe riconoscere, citando, l’impegno di chi lo fa da lungo tempo in modo ragionato e condiviso. Si insorge contro le retoriche pro-innovazione tecnologica di ministri come Profumo: eppure non ricordo che i tre firmatari siano intervenuti tempestivamente quando, Profumo ministro, le testate con cui loro stessi collaborano da tempo immemorabile gareggiavano nel promuoverne iniziative e rilanciarne i più risibili proclami.

Il competitivo egotismo è il grande torto di un "appello" che ha dalla sua alcune piccole ragioni. Non un dubbio sull’esaurimento del "mandato". Né tantomeno una riflessione sul venir meno della propria autorevolezza (o "morfologia") di intellettuali. Si pretendono pur sempre per sé posizioni di stizzosa contiguità al potere. L’omaggio a Pasolini appare strumentale.

* THE HUFFINGTON POST, 21/12/2013


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