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VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!

VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile) - di Federico La Sala

(...) al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità!
sabato 6 gennaio 2024
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, che James (...)

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> RILEGGERE VICO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". --- “Le donne all’assemblea”. La sfida di Aristofane a Platone (di Umberto Curi)

lunedì 10 marzo 2014

Un saggio di Luciano Canfora sul contenuto della commedia “Le donne all’assemblea”

La sfida di Aristofane a Platone sul campo di battaglia dell’utopia

Sarcasmo feroce contro l’ipotesi di profonde riforme sociali

di Umberto Curi (Corriere della Sera, 10.03.2014)

Il difetto principale dei filosofi - scriveva Giambattista Vico - è di non aver «accertato le loro ragioni con l’autorità dei filologi», mentre dall’altra parte è imputabile ai filologi il non essersi curati «d’avverare la loro autorità con la ragione dei filosofi». Per ovviare a queste opposte unilateralità, sarebbe necessario nutrire la «scienza del vero», in cui consiste la filosofia, con «la coscienza del certo», assicurata dalla filologia, sviluppando dunque fra l’una e l’altra un rapporto di complementarità.

Se ci si riferisce al panorama degli studi riguardanti in particolare il pensiero classico, non si può dire che l’appello vichiano sia stato effettivamente raccolto. In termini generali, si è da tempo cristallizzata una distinzione fra ricerche di carattere microfilologico, insensibili all’esigenza di «inverare il certo», e testi filosofici incapaci di «accertare il vero».

Il merito principale dell’opera di Luciano Canfora La crisi dell’utopia (Laterza) può essere indicato nel risoluto superamento di ogni sterile distinzione disciplinare, alla quale si sostituisce una ricostruzione accurata e rigorosa, finalizzata a fare emergere alcune importanti questioni propriamente filosofiche. Con un’aggiunta che rende ancor più prezioso, e per certi aspetti perfino «necessario», il contributo arrecato da questo libro, e cioè il fatto che la sinergia tra filologia e filosofia non si limita a gettare luce su alcune questioni circoscritte, relative al rapporto tra Aristofane e Platone, ma è invece messa al servizio di un interrogativo di persistente e anzi rinnovata attualità, quale è quello che riguarda il ruolo dell’utopia.

L’obbiettivo programmatico del testo è esplicitamente dichiarato fin dall’esordio. Si tratta di dimostrare che la commedia di Aristofane intitolata Le donne all’assemblea (Ecclesiazusai), colpisce con l’arma del sarcasmo quel progetto di riforma radicale della società che viene proposto da Platone, in particolare nei libri IV, V e VI del dialogo dedicato allo Stato.

Attorno a questo nucleo problematico si addensano poi una molteplicità di temi più specifici, ciascuno dei quali esigerebbe una adeguata valorizzazione: il carattere «scenico» dei dialoghi di Platone, opportunamente trattati alla stregua di vere e proprie drammaturgie; l’identificazione del misterioso Aristillo, personaggio che compare in due commedie aristofanee, con il filosofo, il cui vero nome era come è noto Aristocle; il perfino sorprendente parallelismo strutturale, analiticamente documentato, fra la Kallipolis descritta da Platone e il modello di società messo alla berlina nelle Ecclesiazusai; la ricognizione delle affinità e delle differenze fra alcune utopie, più o meno direttamente riconducibili a Platone, dal mito di Atlantide, fino alla Città del sole di Tommaso Campanella.

Se è vero che l’importanza di un libro si misura sul rilievo delle questioni che è in grado di suscitare, più ancora che sulle risposte specifiche in esso contenute, il testo di Canfora offre un contributo di primissimo ordine nella prospettiva ora accennata.

Per prima cosa, pur lavorando sul nucleo propriamente «utopistico» della teoria politica di Platone, l’autore offre argomenti idonei a ridimensionare energicamente la tradizionale interpretazione «idealistica» del filosofo, mostrando al contrario fino a che punto la stessa Kallipolis descritta nella Politeia non possa essere assimilata senza residui ad un modello astratto, non abbia affatto i contorni di quello «Stato perfetto» che si è soliti attribuire all’autore ateniese.

Con ciò, non importa se talora in maniera indiretta, Canfora aiuta a riconoscere un punto di fondo, abitualmente rinnegato dalla critica, vale a dire il fondamentale «realismo» dell’approccio platonico al problema dello Stato, e di conseguenza l’assunzione della politica come pharmakon, destinato a «curare» - ma insieme mai a «guarire» completamente - i mali che affliggono gli Stati.

Un secondo e decisivo ordine di considerazioni può essere proposto in relazione alla trattazione dei dialoghi platonici in termini di drammaturgie. Questo suggerimento, per lo più ignorato o sottovalutato dagli studiosi, andrebbe invece ulteriormente approfondito, cogliendo il drama non soltanto in alcuni aspetti attinenti alla struttura esterna dei dialoghi, o in alcune «citazioni» da coeve opere sceniche, ma nell’articolazione stessa dell’argomentazione filosofica. Nel Sofista , ad esempio (testo più volte citato dallo stesso Canfora), più ancora della «scena» d’esordio, che funge come mera «cornice» introduttiva, genuinamente drammatica è l’alternativa di fronte alla quale i due interlocutori vengono a trovarsi, stretti fra la necessità di ricorrere al parricidio e la rinuncia alla possibilità di usare il logos.

Come accade anche nel Teeteto (che costituisce notoriamente il preambolo narrativo del Sofista) la ricerca condotta assume i caratteri di una intensa drammaturgia, proprio perché in gioco è una questione letteralmente di vita o di morte, quale è quella connessa all’ipotesi di dover rinunciare a parlare e a pensare.

Un’ultima considerazione, apparentemente marginale, fra le molte a cui per brevità si è costretti a rinunciare. Secondo un uso da tempo tanto consolidato, in Italia e fuori, quanto totalmente immotivato, il titolo del dialogo platonico riguardante lo Stato - in greco: Politeia , che designa ciò che attiene allo «Stato», o la «Costituzione» - è tradotto con l’italiano Repubblica.
-  La giustificazione abituale per questo vero e proprio abuso linguistico è che i titoli italiani delle opere greche vanno tradotti attraverso la denominazione latina. Ma anche uno scolaro della prima liceo sa che l’espressione latina res publica , con la quale si traduce il greco politeia , indica lo Stato , e non una forma specifica di governo, quale è appunto la repubblica. Come peraltro confermano i titoli di altre opere coeve (si veda ad esempio l’Athenaion politeia, la Costituzione degli ateniesi di Aristotele, che a nessuno verrebbe in mente di tradurre con «la repubblica degli ateniesi»).

L’auspicio è allora che, giovandosi della sua indiscussa autorità di antichista, Canfora possa accreditare una dizione corretta del titolo di un testo così importante.


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