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VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!

VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile) - di Federico La Sala

(...) al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità!
sabato 6 gennaio 2024
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, che James (...)

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> VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". --- Il caso Cesare Beccaria: una storiografia giuridica antilluminista (di Vincenzo Ferrone)

giovedì 28 luglio 2016

      • STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....


Storia

Il caso Cesare Beccaria

di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 ore, Domenica, 24 luglio 2016)

Cesare Beccaria ha certamente cambiato il nostro modo di pensare il diritto di punire, la stessa idea di giustizia, ponendo al centro della sua riflessione la difesa dell’uomo dall’uomo, in particolare dal cosiddetto homo necans, l’uomo che uccide per un ideale superiore. Risulta impressionante constatare il numero dei convegni che si sono svolti in Italia e all’estero in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene. Perché tanto clamore e coinvolgimento emotivo? Perché quelle pagine così ricche e appassionate si rivelano ancora moderne ed efficaci nella loro requisitoria contro la pena di morte, ma anche capaci di irritare tanti lettori nel mondo dei giuristi? Quanto conta l’estraneità di Beccaria a quel mondo, storicamente incline a concepirsi più o meno consapevolmente come corporazione, sensibile a una concezione del diritto come scienza ontologicamente autonoma, talvolta persino tempio dei sacerdotes juris e dei loro impenetrabili arcana?

Il fatto è che ancora troppi dei nostri studenti di giurisprudenza e più in generale tanti operatori di giustizia ignorano le pagine del Dei delitti e delle pene, o il più delle volte ne commentano con sufficienza le tesi, in parte a causa di una storiografia giuridica antilluminista che resta egemone nelle università italiane.

«Beccaria non è un vero giurista!» Quante volte questa frase perentoria ha concluso ogni discussione sul contenuto autentico di quel volumetto? Dopo la sua condanna all’oblio sancita dalla Restaurazione accadde che, nei primi decenni del Novecento, studiosi autorevoli come Arturo Rocco e Vincenzo Manzini ne certificassero l’estraneità alla corrente dei fautori dell’indirizzo tecnico-giuridico e della purezza scientifica del diritto positivo. Tale pregiudizio, legato a un’idea tutta formalistica di diritto, permane inossidabile.

Il vero punto dolente resta però soprattutto la poca simpatia che continua a correre tra l’illuminista milanese, considerato una sorta di padre spirituale dei cosiddetti garantisti, e il mondo dei giudici. Il contrasto, che nacque già all’indomani della pubblicazione del volume, non pare destinato ad attenuarsi. Al centro del contenzioso resta il problema interpretativo della norma. Il contenuto del celebre paragrafo IV, Interpretazione della legge, scritto nel nome dei diritti della persona e del principio di legalità e contro l’arbitrio e il dispotismo di settori della magistratura, continua infatti a essere decontestualizzato.

L’obiettivo è sempre quello di far apparire Beccaria un ingenuo e astratto incompetente che non conosceva il difficile mestiere del giudice, cui da sempre è connaturata una qualche forma di interpretatio. E invece quel capitolo va letto per intero, storicizzato senza anacronismi e semplificazioni, in quanto esso disegna un modello limite, un orizzonte di riferimento, e soprattutto pone per la prima volta un grande problema storico e giuridico, un problema cruciale con cui continuiamo e continueremo a fare i conti in futuro.

Quel paragrafo apriva infatti una stagione nuova nella storia del diritto in Occidente, allorché l’antica figura del giudice era chiamata a mutare mentalità e profilo professionale, a confrontarsi con un’idea di legge conseguente al declino del cosiddetto «governo degli uomini» e alla nascita del moderno «governo delle leggi», del nuovo spirito repubblicano e democratico-rappresentativo voluto dagli illuministi.

«Chi sarà dunque il legittimo interprete della legge? - si chiedeva Beccaria - Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti o il giudice, il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi?». La secca risposta a favore del legislatore andrebbe valutata nel suo significato autentico, che prevedeva la presa di distanza dall’antica concezione del diritto elaborata dal medioevo, dalla visione sacrale di un magistrato ermeneuta e di una legge, estranea alla volontà umana, da riconoscere nel fluire della realtà storica secondo un’antica modalità che dava di fatto un potere enorme ai sacerdotes juris.

Chi ha compreso con acutezza la vera posta in gioco in quel testo è stato Paolo Grossi, maestro della storiografia giuridica italiana. Non a caso egli ha fatto delle pagine scritte da Beccaria sul tema fondamentale dell’interpretazione un punto decisivo della sua implacabile requisitoria contro le «mitologie giuridiche della modernità», e in particolare contro la «legolatria illuministica», colpevole di aver liquidato l’antica dimensione sapienziale del diritto maturata nel medioevo. Una perdita che «non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i giuristi, siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo carattere òntico, del diritto come fisiologia della società, da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole».

L’Illuminismo e la sua politica del diritto centrata sul governo della legge rappresentano dunque per Grossi il momento di rottura che porta verso la così poco amata modernità giuridica, ossia l’approdo di un lungo processo di trasformazione del diritto come fatto sociale avviato nel Trecento con l’emergere dell’individualismo moderno contro il comunitarismo e il corporativismo medievale. Ecco che con i Lumi arriva la vittoria della sovranità del principe e dello Stato assoluto, decisi a ridurre il diritto alla sola legge imposta autoritariamente dall’alto grazie all’influenza di miti come lo stato di natura, la geometrica eguaglianza degli individui, il contratto sociale.

Va detto con chiarezza che - al di là dei giudizi di valore che si possono esprimere a favore o contro la modernità giuridica - la serrata ricostruzione storica di Grossi circa la genesi di quel nuovo modo di pensare il diritto è per larghi tratti condivisibile. E tuttavia è difficile non individuare punti critici nella sua caratterizzazione della cultura giuridica dell’Illuminismo quale premessa del moderno positivismo giuridico kelseniano.

Allo stato attuale della ricerca storiografica, ad esempio, il persistente riferimento a una «mistica della legge» imposta come una sorta di filo rosso alla modernità giuridica da parte degli illuministi non regge alla prova dei fatti. A ben vedere, quella tesi che ha fatto di questi ultimi i veri ispiratori dell’ossessiva codificazione ottocentesca non tiene nel debito conto la discontinuità profonda di opere come quella di Beccaria.

Si dimentica l’apporto originale e fecondo della cultura illuministica alla storia del moderno costituzionalismo, alla fondazione dei presupposti giuridici e politici dello Stato costituzionale in cui viviamo: tematiche queste ormai da anni al centro del dibattito internazionale ma ancora poco frequentate dalla storiografia giuridica italiana.

Oggi sappiamo che il costituzionalismo illuministico, con il suo repubblicanesimo, con la sua difesa della costituzione scritta, con la centralità dei diritti dell’uomo, era cosa ben diversa sia dal costituzionalismo d’Antico regime, consuetudinario - che nella concezione di Montesquieu opponeva potere a potere, i corpi intermedi al re -, sia dal costituzionalismo rivoluzionario, dominato dalla volontà generale, dal primato del legislativo e dall’idea della sovranità nazionale che faceva comunque premio sui diritti dell’individuo posti dagli illuministi al di sopra di ogni cosa. Per sincerarsene basta ripercorre le pagine scritte da Condorcet e da Paine, alle prese con il dibattito costituzionale americano prima del 1789, o quelle straordinarie di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano decisi a creare una nuova Scienza della legislazione capace di produrre un ordinamento giuridico costruito sulla base di principi, valori e diritti dell’uomo.

Contro l’assolutismo essi prefigurarono le fondamenta di un moderno Stato costituzionale. Uno Stato in cui dovevano operare due piani di legalità: un piano codicistico e legislativo e un piano costituzionale di verifica dei valori illuministici maturati consacrati nel principio dell’eguaglianza dei diritti dell’uomo.

Cesare Beccaria fu certamente tra coloro che in Italia e in Europa ispirarono direttamente la nascita del moderno e cosmopolita «costituzionalismo illuministico» destinato a essere travolto dalla Rivoluzione francese e dalla costruzione degli Stati nazionali nel corso dell’Ottocento. Nel suo interrogarsi sulla presenza di Beccaria nella costituzione repubblicana sorta dalla Resistenza non a caso fu proprio Piero Calamandrei a fornire suggestioni in questa direzione indicandolo tra i fautori liberali di una dottrina del potere pubblico limitato.

L’opera di Beccaria continua insomma a interrogarci e a rivelarsi ricca di suggestioni e insegnamenti. E ciò perché le ragioni profonde del suo perentorio imporsi restano universali e perenni in quanto elaborate con passione civile a difesa dell’uomo e dei suoi diritti.


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