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SCIENZA E FILOSOFIA: "PLUS ULTRA" (BACONE)! ONORE A LUCIO RUSSO ...

PRIMA DI COLOMBO: LA SCOPERTA DELL’AMERICA E’ DEI CARTAGINESI. TESI DI LUCIO RUSSO: PROVE INCONFUTABILI. Una nota di Pietro Greco - a c. di Federico La Sala

Protagonisti della storia di Lucio Russo sono tre grandi scienziati dell’età ellenistica - Eratostene, Ipparco e Tolomeo - e due popoli, i cartaginesi e i romani.
martedì 2 luglio 2013
[...] Lucio Russo, dunque, fornisce per la prima volta una prova quantitativa della scoperta dell’America avvenuta a opera di popolazioni mediterranee prima della nascita di Cristo. E ciò costituisce in sé una novità davvero importante. Di quelle che fanno riscrivere i manuali di storia in tutto il mondo [...]

L’America scoperta dai cartaginesi. Duemila anni prima di Colombo
È la straordinaria tesi di Lucio Russo
Un libro che (...)

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> PRIMA DI COLOMBO: LA SCOPERTA DELL’AMERICA --- E Magellano ridisegnò la Terra (di Alessandro Vanoli).

domenica 28 aprile 2019

E Magellano ridisegnò la Terra

di Alessandro Vanoli (Corriere della sera, La Lettura, 28.04.2019)

Perché ci piacciono tanto i racconti di viaggio? Gli ultimi anni hanno visto un grande successo di libri sulle mappe, sulle esplorazioni e sulle strade percorse nei secoli. Credo ci sia più di una spiegazione: la prospettiva globale con cui siamo ormai obbligati a guardare al mondo, la crisi di un certo tipo di storia (e assieme ad essa di un certo tipo di geografia); e anche il bisogno di ritrovare un senso d’avventura che la nostra faticosa società ci nega sempre di più. Ma forse oltre questo c’è anche il fatto, non scontato, che di mondo da scoprire semplicemente non ne abbiamo più. E questa, a pensarci bene, non è una cosa da poco, perché per millenni noi non abbiamo fatto altro che superare limiti e confini e, superandoli, abbiamo rivisto le nostre conoscenze e dato nuovo alimento ai nostri sogni.

In questa prospettiva è difficile trovare un momento più significativo e determinante di quello che si visse in Europa e sull’Atlantico alla fine del Quattrocento. Da secoli oltre le colonne d’Ercole, i marinai navigavano lungo le coste del Marocco e della Spagna, sino alle fredde isole del Nord; e qualcuno, come gli islandesi, era giunto persino alle coste più settentrionali dell’America. Ma ora, in quell’ultimo scorcio di secolo, tutto era pronto per un vero balzo in avanti. Nuove imbarcazioni con un sistema di vele sempre più complesso e più resistenti fasciami delle carene. Una progressiva decifrazione dei venti e delle correnti, anche grazie al controllo delle isole oceaniche, soprattutto le Canarie. E inoltre conoscenze geografiche sempre più solide. A quei tempi nessuno che fosse sufficientemente istruito o intelligente dubitava della sfericità della Terra.

Semplicemente lo si sapeva da sempre, da quando gli antichi, Eratostene prima e Tolomeo dopo, l’avevano calcolato. Il problema semmai era capire quanto quei calcoli fossero giusti: se l’Oceano Indiano era davvero un mare chiuso o se il tratto di mare tra Europa e Asia fosse corto a sufficienza da poter essere affrontato. Così in quegli ultimi scorci di secolo, portoghesi e castigliani moltiplicarono le esplorazioni. Sino a quel fatidico 3 agosto 1492, quando da Palos de la Frontera Cristoforo Colombo partì alla ricerca di una via occidentale per le Indie. Perché il motivo era quello: l’Oriente. Le ricchezze della Cina, le spezie, i tessuti, le pietre preziose che giungevano in Europa lungo le vie dell’Asia. Era quella la ragione di ogni sforzo e di ogni sfida all’ignoto. Con gli spagnoli che cominciarono a spingere verso Ovest e i portoghesi verso Sud, lungo le coste d’Africa. Bastarono pochi anni per capire che la situazione andava regolamentata. Ci pensò papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, che però era spagnolo e dunque decisamente di parte), che nel 1494 con il trattato di Tordesillas stabilì i confini dei reciproci imperi: collocato un meridiano nei pressi delle isole di Capo Verde, stabilì che a Ovest di quel punto tutto sarebbe stato spagnolo e a Est portoghese.

Intanto la gara continuava. Pochi anni dopo, il 20 maggio 1498, le navi di Vasco da Gama erano a Calicut, di fronte alle coste dell’India. Fu solo un primo contatto: i portoghesi tornarono pochi anni dopo, questa volta in armi. Nel 1510 la conquista del porto di Goa e nel 1511 il controllo dello stretto di Malacca attraverso cui si accedeva alla gran parte delle isole indonesiane. In altra maniera: i portoghesi si erano impadroniti del cuore del commercio delle spezie.

Fernão de Magalhães, che noi conosceremo come Ferdinando Magellano, cominciò proprio in quegli anni la sua carriera. Era un nobile, un soldato e un avventuriero; e navigando per l’Oceano Indiano si era fatto un’idea piuttosto chiara di che cosa fosse la ricchezza e di come raggiungerla. Tornato in Portogallo, cercò di convincere i suoi sovrani che sarebbe stato più facile navigare verso le Indie passando dall’Atlantico. Ma il Portogallo aveva già una rotta più che soddisfacente e nessuno l’ascoltò. Così si rivolse ai diretti concorrenti, gli spagnoli, dove trovò tutt’altro ascolto. Magellano si sbagliava: pensava, come Colombo, che il tratto di mare tra Europa e Asia fosse molto più corto. Ma su quell’errore avrebbe fatto letteralmente la storia.

Era il 20 settembre 1519 - esattamente cinquecento anni fa - quando salpò da Sanlúcar de Barrameda, con cinque navi e circa duecentocinquanta uomini. Una spedizione imponente, raccontata da Laurence Bergreen in Oltre i confini del mondo (libro riproposto ora da HarperCollins a 15 anni dalla prima edizione con una nuova introduzione dell’autore).

Dopo le consuete soste alle Canarie e alle isole di Capo Verde, Magellano giunse in Brasile, sostò un’altra volta, poi volse la prua a sud. Agli inizi del 1520 la flotta incrociava lungo la costa dell’America meridionale alla ricerca dello stretto. In marzo il clima si fece spaventoso: Magellano fu obbligato a svernare in Patagonia e si ritrovò a dover sedare un ammutinamento. Quando finalmente arrivò in vista dello stretto, alle porte dell’Oceano Pacifico, in realtà aveva già fallito: il passaggio era troppo a sud per servire davvero come via d’accesso all’Asia. Inoltre era un tale intrico di canali e di venti avversi che sarebbero occorse sette settimane per superarlo. Durante quei giorni forse davvero sentì di essere giunto alla fine del mondo. Talvolta intravide qualcosa che poteva tradire la presenza di un insediamento umano: fuochi lontani e d’ignota natura che bruciavano, e rosse fiamme che sembravano apparizioni spettrali sullo sfondo verde cupo di cipressi, rampicanti e felci. Talvolta vide invece immensi muri di ghiaccio: duecento o cinquecento piedi, le cui creste si elevavano più alte dei condor che volavano lontani in ampi cerchi.

Quando finalmente uscì da quell’inferno, sembrò a Magellano di avercela fatta: venti propizi e un mare così calmo da convincersi a battezzarlo Pacifico. Ma si sbagliava anche questa volta: lo aspettavano novantanove terribili giorni di viaggio in alto mare. Quando nel marzo del 1521 avvistò l’isola di Guam, le riserve d’acqua erano putride e le gallette ormai piene di vermi, mentre gli uomini del suo equipaggio si erano ridotti a masticare gli involucri di cuoio delle vele, con le bocche gonfie per lo scorbuto. Magellano comunque raggiunse le Filippine e le rivendicò nel nome di Carlo V. Ma fu proprio lì che il viaggio gli fu fatale. I rapporti con i locali sembrarono inizialmente cordiali, ma poco ci volle perché le cose degenerassero. Magellano morì in battaglia, combattendo a fianco di un rajah locale contro quello della vicina isola di Mactan.

La spedizione aveva perso il suo comandante. Il 27 aprile lo spagnolo Juan Sebastián Elcano assunse il comando della Victoria, la nave che era stata di Magellano e che ora era ridotta a sessanta uomini di equipaggio; e si accinse al viaggio di ritorno. L’Oceano Indiano, innanzi tutto, poi il Capo di Buona Speranza e ancora l’infinita costa dell’Africa. Il 6 settembre 1522 all’orizzonte del porto di Sanlúcar de Barrameda, in Spagna, apparve la sagoma di un vascello in rovina. A mano a mano che la nave si avvicinava, la gente accorsa sulla banchina poté vedere brandelli di vele sbattuti dal vento penzolare dall’alberatura, sartiame marcio, colori sbiaditi dal sole e fiancate corrose dalle burrasche. Dal parapetto di quel relitto si affacciavano i corpi scheletriti di diciotto marinai e tre prigionieri drammaticamente denutriti. Il cronista della spedizione, l’italiano Antonio Pigafetta, annotò con la consueta precisione: «Navigammo 14.460 leghe e completammo il circuito del mondo da est a ovest». Di quella lunga tragedia e di quella incredibile avventura era sicuramente quello il risultato più importante.

La spedizione di Magellano aveva fornito un’evidenza decisamente nuova riguardo alle dimensioni della Terra. La sua circumnavigazione cambiò per sempre la concezione occidentale della cosmologia e della geografia. Grazie a quel viaggio, fu provato che le Americhe non facevano parte dell’India, ma erano un continente a sé stante, e che gli oceani coprivano la maggior parte della superficie terrestre. Nel 1531 fu pubblicata la prima carta attendibile dello Stretto di Magellano: in questa rappresentazione, disegnata da Oronce Finé, esso compare nella sua posizione corretta in fondo al continente sudamericano, e anche se il cartografo non lo chiama così, c’è pure l’Oceano Pacifico.

Ci avrebbe poi pensato il fiammingo Gerardo Mercatore a fissare definitivamente il nome dello stretto sul suo famoso planisfero del 1541. Ben pochi però vollero ritentare l’impresa. Nel 1525 una spedizione impiegò quattro mesi e mezzo per attraversare lo stretto e i partecipanti consigliarono caldamente di cambiare rotta. Quella speranza di un passaggio verso la Cina si spostò dunque a nord: per i secoli successivi le navi di inglesi e olandesi avrebbero sfidato i ghiacci dell’Artico nell’inutile sforzo di trovare il passaggio a nord-ovest.

Quando gli esploratori tornarono a sud lo fecero per altri motivi: c’era una parte di mondo ancora da cercare. Un continente intero, pensavano. E quella terra non poteva che essere laggiù. Una terra che persino Aristotele e i pitagorici avevano previsto e che da secoli faceva sognare filosofi e viaggiatori. Di una terra australe c’era bisogno, pensavano in molti, perché serviva a compensare le altre terre emerse; perché un continente simmetrico al mondo conosciuto - dicevano i filosofi - sarebbe stato indispensabile per equilibrare il pianeta e impedirgli di rovesciarsi. E al di là degli aspetti più fantasiosi, l’idea continuava a sembrare ragionevole. Soprattutto perché proprio Magellano l’aveva visto: quando passando dalla Terra del Fuoco aveva scorto alla sua sinistra isole di foreste e di neve. Così per secoli ogni volta la Terra Australis sembrò farsi più vicina. Sembrò soltanto. E forse è proprio lì il segreto e il lascito più grande di Ferdinando Magellano. Averci dimostrato che superare i limiti della propria conoscenza è l’unico modo per dare vita a sogni e fantasie ancora più grandi.


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