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PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"?

CORSI E RICORSI STORICI: CIVILTA’ AL COLLASSO. Uno studio della Nasa: l’Occidente è destinato a crollare come Roma antica e gli altri grandi imperi del passato. Una nota di Vittorio Sabadin e una di Paolo Mastrolilli - a c. di Federico La Sala

Il professore della Columbia University Jagdish Bhagwati: “Ma la via d’uscita c’è: puntare sul capitale umano”
venerdì 21 marzo 2014
[...] Andiamo alle radici storiche della questione. Tutti i grandi imperi, a partire da quello romano, hanno commesso l’errore di escludere le classi più basse, pensando che le cose sarebbero sempre rimaste uguali. Anche noi lo stiamo ripetendo ora, però la soluzione non è ridistribuire, ma includere [...]
GUARIRE LA NOSTRA TERRA.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT (...)

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> CIVILTA’ AL COLLASSO. --- Abbiamo ancora un futuro? Ogni giorno, da più parti, si levano voci autorevoli ad avvertire che siamo giunti a un momento cruciale e unico nella storia del nostro pianeta (di Michela Dall’Aglio)

venerdì 18 gennaio 2019

Abbiamo ancora un futuro?

di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 17 gennaio 2019)

Ogni giorno, da più parti, si levano voci autorevoli ad avvertire che siamo giunti a un momento cruciale e unico nella storia del nostro pianeta; il suo futuro è nelle nostre mani, perché l’attività umana può renderlo inabitabile o, nell’ipotesi migliore, desolato. Tutto dipenderà dalle scelte che l’umanità intera, soprattutto i Paesi più ricchi, faranno non domani, ma oggi. Il punto di non ritorno, quello in cui avremo messo in moto una macchina che non potremo più fermare è veramente alle soglie. Sapremo essere all’altezza di una simile responsabilità? Alexis de Tocqueville, parlando della fine delle società aristocratiche, sosteneva che la ragione fondamentale della loro caduta fosse stata il fatto che gli aristocratici non erano più degni di governare. In realtà pensava che questo fosse vero a un livello più generale e che il potere si perde quando non si è più degni - non semplicemente capaci - di esercitarlo. La sua osservazione mi pare molto appropriata a una riflessione sulla situazione odierna, infatti è molto probabile che l’umanità avrà un futuro solo se dimostrerà di meritarselo. Se non agiremo con saggezza, lungimiranza e responsabilità il nostro pianeta non potrà più ospitarci, ci caccerà via, come si fa con quegli ospiti per i quali si è preparata e addobbata una bella dimora e questi, per tutto ringraziamento, la vandalizzano lasciando dietro di sé solo rovine.

In un bel saggio di alcuni anni fa, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi), Jared Diamond s’interrogava sulla scomparsa di alcune società un tempo fiorenti proponendo di guardare alla loro storia come a una «sorta di grande banca dati da cui ... trarre lezioni utili per continuare a far prosperare le nostre società». Perché alcune società sono crollate, si chiedeva, mentre altre, pur avendo affrontato crisi durissime hanno resistito, talvolta tornando a prosperare di nuovo? Dalle loro vicende pensava, giustamente, che anche le nostre società, per quanto ricche e tecnologicamente avanzate, avrebbero potuto imparare qualcosa.

Nessuna società è mai crollata per una sola causa, sostiene Diamond, ma piuttosto per un concatenamento di eventi, spesso provocati in successione l’uno dall’altro con inevitabile consequenzialità.

L’inizio normalmente era imputabile a una crisi del sistema ecologico, per lo più configurabile con questa successione: deforestazione e distruzione dell’habitat, gestione sbagliata del suolo (con conseguente erosione, salinizzazione e perdita di fertilità del terreno), cattiva gestione delle risorse idriche, eccesso di caccia e/o di pesca, introduzione di specie nuove, crescita della popolazione umana, aumento dell’impatto sul territorio di ogni singolo individuo. Per le società contemporanee a questi pericoli se ne aggiungono altri quattro, tipicamente moderni: i cambiamenti climatici dovuti all’intervento umano, l’accumulo di sostanze chimiche tossiche nell’ambiente, la carenza di risorse energetiche e l’esaurimento della capacità fotosintetica della Terra. La prospettiva, laddove non si tenti di far fronte energicamente a questi pericoli, è per Diamond non tanto una distruzione totale del nostro ambiente, ma piuttosto quella di un radicale abbassamento degli standard attuali di vita delle società più avanzate senza che vi sia, per altro, un miglioramento delle condizioni per i paesi più poveri. E, soprattutto, una crisi sostanziale di quelli che, fino ad oggi, consideriamo i valori irrinunciabili dei nostri sistemi, come la libertà, i diritti umani, la democrazia politica, la pace e la giustizia. Lo stesso pericolo lo ha denunciato con chiarezza anche papa Francesco nella sua enciclica Laudato sii, che ha raccolto ampi consensi in tutto il mondo al di là delle confessioni religiose. «Il degra­do ambientale e il degrado umano ed etico - affermava - sono intimamente connessi».

Jared Diamond scriveva solo dieci anni fa, e oggi è evidente che stiamo velocemente percorrendo la brutta strada da lui descritta, tanto che adesso la sua prospettiva sembra addirittura ottimista. La possibilità di una vera distruzione di gran parte degli habitat della Terra è diventata ormai una minaccia realistica e incombente, a dispetto dei tentativi, sempre più smaccatamente pretestuosi e disonesti, di chi vuole negare gli effetti distruttivi dell’azione umana sull’ambiente, soprattutto per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Nonostante tutto, Diamond si dichiarava cautamente ottimista sulla possibilità che l’umanità avrebbe saputo prendere le decisioni giuste per evitare una catastrofe ambientale, per due motivi sostanzialmente: la sensibilizzazione crescente delle popolazioni mondiali riguardo alle problematiche ambientali e l’altrettanto crescente attenzione che ad esse riservavano i leader delle potenze economiche più avanzate. Riferendosi agli Stati Uniti, che riteneva «il paese più ricco e potente del mondo, con abbondanti risorse ambientali, guidato da leader illuminati, fornito di alleati leali e disturbato solo da pochi nemici deboli e insignificanti», non pensava che avrebbero dovuto temere di trovarsi sull’orlo di un baratro. Per lo meno non per le stesse ragioni che avevano messo in crisi le civiltà antiche da lui analizzate.

Ma le cose possono cambiare in fretta, soprattutto per quanto concerne i leader illuminati, e oggi non potremmo esprimere la stessa fiducia perché la classe politica, a livello mondiale, spesso fa temere di non essere all’altezza dei problemi che deve affrontare. L’ha detto, senza soggezione e con una schiettezza tipicamente giovanile, Greta Thunberg, una ragazzina svedese di quindici anni, nel discorso alla Conferenza delle Parti sul Clima (COP24) tenutasi a Katowice, in Polonia, lo scorso dicembre. Le sue parole hanno fatto il giro del mondo: «Voi parlate... solo di andare avanti con le stesse idee sbagliate che ci hanno messo in questo casino... quando la cosa più sensata da fare sarebbe tirare il freno a mano. Non siete abbastanza maturi da dire le cose come stanno, lasciate persino questo fardello a noi ragazzi... Dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo concentrarci sull’equità. E se le soluzioni sono tanto impossibili da trovare, forse dovremmo cambiare il sistema. Non siamo venuti qui per pregare i leader mondiali di occuparsene. Ci avete ignorati in passato e ci ignorerete ancora. Non ci sono più scuse e non c’è più tempo. Siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no...» Insomma, la Terra brucia e il tempo non è più dalla nostra parte (cfr. M. Mann, T. Toles, La Terra brucia, Hoepli).

La complessità che l’ecologia planetaria, il cambiamento climatico e l’uso delle risorse energetiche mettono in gioco è tale che l’opinione pubblica può essere facilmente male informata e manipolata, soprattutto in momenti in cui la scienza è messa in discussione dall’ignoranza. L’unico possibile rimedio è che, al di là delle prese di posizione ideologiche e strumentali, ognuno cerchi di capire i termini della questione per farsi un’idea realistica del reale impatto delle attività umane sul sistema Terra. A tal fine può essere molto utile la lettura di un saggio, La grande accelerazione. Storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, scritto a due mani dagli storici J.R McNeill e P. Engelke, il primo docente alla Georgetown Univeristy, il secondo senior fellow dell’Atlantic Council’s Scowcroft Center on Strategy and Security. Essi condividono l’ipotesi di Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995 per i suoi studi sulla riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera, secondo il quale possiamo considerare ormai finito l’Olocene (epoca che comprende più o meno gli ultimi dodicimila anni) e iniziato l’Antropocene, epoca in cui il genere umano esercita «un’influenza decisiva sull’ecologia globale». Questo cosa significa? In pratica, affermano gli autori, vuol dire che le azioni dell’uomo interferiscono con i sistemi fondamentali che governano la vita e l’evoluzione del nostro pianeta. Gli inizi di questo fenomeno possono essere fatti risalire alla fine del XVIII secolo, quando la prima rivoluzione industriale diede inizio a un sempre più massiccio utilizzo dei combustibili fossili e la popolazione umana cominciò a crescere a ritmi senza precedenti. In seguito, a partire dalla metà del Novecento, entrambi i fenomeni hanno assunto dimensioni tali da cambiare radicalmente i «rapporti tra la nostra specie e la biosfera in una storia lunga 200.000 anni». La qual cosa, proseguono, «dovrebbe renderci piuttosto scettici riguardo al fatto che le tendenze attuali siano destinate a durare a lungo». Soprattutto perché il pianeta non è più in grado di sopportarlo. Banalmente, se volete, non c’è più abbastanza materiale da usare: acqua, dolce e salata, foreste, petrolio...

Nonostante una maggiore sensibilità globale e una generale riduzione dei tassi di fertilità, se qualche catastrofe naturale non ci fermerà il dominio dell’uomo e la sua spropositata influenza sull’ambiente continueranno. «Quello che è certo - avvertono gli autori - è che quanto è stato fatto finora dall’uomo, principalmente tra 1945 e oggi, lascerà un segno del nostro passaggio sul pianeta, sul suo clima, sul suo ecosistema, sull’acidificazione degli oceani e altrove ancora, che resterà indelebile nei millenni a venire». E nel considerare la fame d’energia del nostro mondo, è bene ricordare che non deriva solo dal funzionamento delle industrie, dei trasporti e dal mantenimento del confort cui siamo abituati in Occidente, ma anche dalla semplice necessità di alimentare una massa enorme di persone. Gli allevamenti intensivi, i disboscamenti, l’irrigazione e così via contribuiscono in maniera determinante a sconvolgere gli equilibri naturali in una catena di cause e conseguenze dettagliatamente riferita dagli autori. Si tratta, insomma, di una storia economica del mondo negli ultimi sessant’anni raccontata dal punto di vista dell’ambiente, con dati e cifre talvolta veramente impressionanti, come ad esempio il fatto che la popolazione mondiale è triplicata dal 1945 al 2015, che l’uso di combustibili fossili era di 3 milioni di tonnellate nel 1750 e di 9500 milioni di tonnellate nel 2015 o che «una certa percentuale, forse un quarto del totale, dei trecento miliardi di tonnellate di carbonio rilasciati nell’atmosfera tra il 1945 e il 2015, vi rimarrà per alcune centinaia di migliaia di anni».

Eppure c’è ancora speranza, concludono, perché il futuro, se è già scritto lo è solo in parte ed è possibile, seppure lentamente, cambiare leggermente rotta al grande transatlantico del mondo. Oggi, infatti, la discussione sul cambiamento climatico non è più confinata entro le mura della comunità scientifica; l’argomento è entrato nelle agende politiche di vari Paesi e ne sono seguite, pur tra difficoltà e marce avanti e indietro, convenzioni e accordi che potrebbero portare a fondamentali miglioramenti. D’altra parte, le recentissime decisioni di alcune potenze fanno temere che molti ostacoli si frappongano ancora a un uso più corretto e lungimirante delle risorse del pianeta. Sui giornali se ne parla quasi quotidianamente, e ne sono un esempio l’uscita voluta da Trump degli USA dagli accordi di Parigi sul clima stipulati nel 2015 tra quasi 200 paesi del mondo - ma va detto che molti governatori di vari stati dell’unione si sono opposti con decisione alle scelte del presidente americano dichiarando che tali accordi resteranno in vigore nei propri territori (cfr. il documentario della National Geographic, L’America che si ribella a Trump, pubblicato su YouTube) -, la decisione del Giappone di riprendere la caccia alle balene o le dichiarazioni del neo-eletto presidente del Brasile Bolsonaro di volere continuare o addirittura incrementare lo sfruttamento della foresta amazzonica (della quale erano stati già distrutti in soli dodici mesi quasi 8000 kmq).Che fare dunque? Tutti concordano che il problema ineludibile è l’innaturale, eccessivamente rapido cambiamento climatico e che pertanto è prioritario agire in questo ambito riducendo drasticamente l’uso di combustibili fossili e rimpiazzandoli al più presto con energie rinnovabili. Ma, soprattutto, tutti concordano sul fatto che il problema che l’umanità si trova ad affrontare oggi è essenzialmente etico prima e più ancora che economico o politico, e che lo si potrà risolvere soltanto decidendo insieme di ridurre drasticamente i consumi energetici. Dobbiamo chiederci seriamente cosa significhi il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere». Se lo sono chiesti i vescovi della Nuova Zelanda nella loro Conferenza Episcopale, citata nell’enciclica Laudato sii; e papa Bergoglio conclude: «Non ci sarà una nuo­va relazione con la natura senza un essere uma­no nuovo. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia».

E a chi pensa che i costi economici necessari a riconvertire il sistema sarebbero spaventosi, J.R. McNeill e P. Engelke obiettano: «il valore di un pianeta è il suo costo di sostituzione. Dal momento che, attualmente, sappiamo che nessun pianeta è in grado di ospitare la vita, il costo per sostituire la Terra è infinito. Quindi qualsiasi valutazione economica del costo dei danni causati dal cambiamento climatico sarà una stima in difetto». E concludono che «è possibile avere davanti un altro futuro... in cui scegliamo come obiettivo quello di un’esistenza planetaria sostenibile». È questo l’unico futuro possibile, non ce n’è un altro.


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