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SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.

DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).

"Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro (...)".
martedì 19 marzo 2024
Della Terra, il brillante colore
2013, nov 27*
Della Terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La (...)

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> DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! --- Cacciari nel «labirinto» del Moderno demoniaco e inattuale (di Giuseppe Cantarano)

giovedì 5 giugno 2014

Cacciari nel «labirinto» del Moderno demoniaco e inattuale

Il nuovo testo del filosofo che fa ritorno alla nostra concreta esistenza

di Giuseppe Cantarano (l’Unità, 05.06.2014)

IL MODERNO - È STATO PIÙ VOLTE DETTO - È COME UN LABIRINTO. MA UN LABIRINTO UN PO’ PARTICOLARE. Perché, sebbene vi sia un centro, questo centro è in realtà vuoto. Non contiene, non custodisce, non nasconde, diciamo così, nessuna Verità. Nessuna salvezza. Non solo. Ma le molteplici vie - i molteplici percorsi - che lo costituiscono a volte si incontrano, si intersecano, si annodano in un groviglio apparentemente inestricabile. Per poi di nuovo separarsi, dividersi, allontanarsi. Sentieri - percorsi - tutti diversi. Inassimilabili. Ciascuno geloso della propria irriducibile, intraducibile singolarità. Della propria distinta identità. Del proprio inconfondibile timbro linguistico. Sentieri - percorsi - tutti differenti. Eppure tutti «identici». Perché tutti hanno in comune l’identico labirinto che li contiene. Quel labirinto le cui vie sono - di volta in volta - tratteggiate, segnate dal loro stesso cammino. Dal loro stesso procedere. Che a volte improvvisamente e inaspettatamente si arresta, si interrompe - come i sentieri di un bosco - per tornare indietro. E per intraprendere un altro cammino. Un’altra direzione. Poiché se è vero che in questo curioso labirinto - che è la filosofia - non c’è un centro, è altrettanto vero che non c’è un’unica via d’uscita prestabilita, predeterminata. Ecco perché ciascun sentiero filosofico è «condannato» a costruirsela, a trovarsela da sé, la via d’uscita.

Metafora del Moderno, questo strano labirinto è però il luogo dove l’interrogazione della filosofia non ha smesso mai di aggirarsi, di avventurarsi, se ci pensiamo bene. È il luogo da dove i molteplici e differenziati percorsi della filosofia non riescono ancora a congedarsi. Perché nessuno è sinora riuscito a crearsi la propria via d’uscita. Mentre il centro è sconsolatamente, disperatamente vuoto. E non c’è più alcun motivo, alcuna ragione, alcun senso per soggiornare in esso.

È a questo paradossale labirinto filosofico che Massimo Cacciari ha dedicato il suo ultimo bel libro, Labirinto filosofico, (Adelphi, pp.348, euro 38,00 ). Un libro «inattuale». Controcorrente, diciamo così. E a suo modo «demoniaco », se vogliamo. Perché non si può certamente scrivere un libro come questo, se non si è spinti, trascinati quasi a farlo da quel demone - di cui parlava Socrate - che abita in ciascuno di noi. E che ci obbliga incessantemente a interrogarci. A tornare a interrogarci ancora sulle «cose ultime». Che ci obbliga, insomma, a far ritorno alla metafisica. E alle sue «eterne» questioni. Troppo frettolosamente - e, peraltro, con puerile ingenuità - liquidate dalle correnti mode filosofiche. Che hanno contribuito a inaridire la filosofia. Relegandola nell’astrazione degli specialismi accademici. Dove agonizza ormai da troppo tempo. Lontano dalla vita. Lontano da quelle domande che cercano di scuoterla. Di acciuffarla. Di «curarla».

Far «ritorno» alla metafisica, per Massimo Cacciari, è tornare infatti a prendersi cura soprattutto di quella «cosa ultima» che è il nostro esserci. La nostra concreta esistenza. Ma senza l’amore - senza la philia - nessun sapere - nessuna sophia - sarebbe davvero in grado di corrispondere a questa disperata «vocazione terapeutica». Perché è vero che è la meraviglia - thauma -, lo stupore per le cose esistenti che muove l’interrogazione della filosofia. È vero - come scrive Cacciari - che «metafisica è l’interrogazione intorno alla physis dell’ente che ci ha tremendamente meravigliato».

Certo, la prima domanda della filosofia scaturisce dallo stupore per le cose esistenti:« Che è “questo” che ci sta di fronte? È qualcosa, certamente - osserva Cacciari -. Da Dove? Perché qualcosa esiste?».

Ma cos’è che tremendamente ci meraviglia, ci spaventa - delle cose che esistono - se non l’angosciante esperienza che noi facciamo del loro dileguamento? Se noi non amassimo le cose che esistono - e le creature che vivono - perché dovremmo tremendamente meravigliarci - angosciarci - del loro dileguamento? Il thauma - la paura più tremenda - è il fatto che dobbiamo morire, ci dice Cacciari.

Ma il nostro pensiero - il «divino», il trascendente che è in noi - si ribella a questa «apparente» evidenza. È l’angoscia della nostra morte che ci costringe a pensare. A filosofare. Che ci costringe a trascenderci.

Ecco perché la filosofia - come erroneamente si crede - non potrebbe mai essere una «cura» per il morire. Non potrebbe mai essere una preparazione alla morte - melete thanatou. Ma è «cura- angoscia contra il nudo fatto che moriamo », precisa Cacciari. È davvero mortale il soffio che dà vita al nostro corpo? Può davvero spegnersi il principio della nostra vita? Siamo davvero convinti che tutto, nel divenire, sia destinato al nulla? Siamo davvero sicuri - si chiede Cacciari - che per «guarire» dall’angoscia della morte, dobbiamo rassegnarci ad abbandonare il nostro corpo - che è soltanto dolore e sofferenza - e «correre a morire, correre incontro alla sua morte per poter credere alla immortalità della pura anima»?

No, la filosofia non è cura per la morte, ma per la vita. La filosofia è sì interrogazione dell’angoscia massima, la morte. Ma non si può «guarire» dalla morte morendo. Ma semmai pensando la morte. Al centro della nostra psiche c’è il nostro pensiero vivente, che ci dice che noi viviamo. Il nostro pensiero vive, è pensiero del vivente poiché si oppone al fatto «apparente» che noi dobbiamo morire. Solo chi è dotato-armato del logos - proprio della filosofia - potrà mettere a morte ogni padrone. Perfino quel padrone che è la nostra morte. Ecco perché la filosofia non può essere una attesa impaziente e impotente della morte liberatrice.

Ma è un saper mettere a morte tutto ciò che ostacola, impedisce una piena vita: «Trapassare il padrone ultimo - la morte - e fare del dato “che si muore” un fatto del pensiero: ecco la cura suprema e il supremo esercizio. Da limite del vivere - ci dice Cacciari - la morte, nell’esser pensata da parte dell’anima, diviene così fattore essenziale della sua vita».


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