Vorrei un figlio, ma con chi lo faccio?
di Lea Melandri (Internazionale, 20 Giu 2015)
In tempi in cui tutto viene imputato alla crisi economica, alla disoccupazione, alla mancanza crescente di servizi sociali, leggere i dati dell’Istat sul calo delle nascite in Italia in chiave di relazione d’amore tra uomini e donne può sembrare un ripiegamento romantico, idealistico. Eppure basterebbe ascoltare i racconti, le domande che si pongono donne fra i trenta e i quarant’anni sulla scelta di avere o non avere figli, per capire che l’amore c’entra, e che se viene trascurato nell’ordine delle cause è perché nell’era del postmoderno - del “post” di tutto - nessuno fa più caso ai sentimenti.
Ci ha fatto caso invece Eleonora Cirant in un interessante libro corale, uscito un paio d’anni fa (Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli), risultato di incontri, conversazioni, interviste con quindici donne della generazione nata negli anni settanta, disposte a interrogarsi sulla scelta “sia di chi diventerebbe madre nel verificarsi di una eventuale circostanza, sia di quelle che non sentono alcun desiderio di maternità”.
Dalla carrellata di esperienze, pensieri di una saggezza fatta di dubbi, interrogativi, libertà da vincoli secolari e oggi sospesa sulla soglia di un ordine che si è andato sgretolando - famiglia, matrimonio, figli - un dato emerge con chiarezza: il calo delle nascite non è come generalmente si pensa solo l’esito di servizi sociali e politiche familiari mancanti, o di una precarietà divenuta condizione esistenziale.
La crisi, prima ancora che di culle, è di case, convivenze, legami amorosi
L’incertezza di fronte alla scelta di mettere al mondo un figlio, sposarsi, convivere con un uomo, conciliare maternità e lavoro, interessi personali e dedizione agli altri, rimanda fondamentalmente alle ricadute di quella che è stata finora la divisione di ruoli e di potere tra un sesso e l’altro.
In particolare, rimanda al confinamento della donna nella figura idealizzata e al medesimo tempo svilita di moglie e madre, che attende da altri il suo completamento e il senso della propria vita; alla restrizione dei confini del mondo al rapporto duale col figlio/a; al sacrificio di sé per la crescita e il benessere dell’individualità altrui; alla trasformazione dell’amore in possesso, della cura in dipendenza perenne di chi la riceve.
Smascherata la falsa naturalità dell’impianto che ha sorretto finora la permanenza nel tempo dell’istituto del matrimonio, ognuno dei componenti della famiglia umana sembra percorrere strade proprie, dove l’incontro è ancora possibile ma a condizioni profondamente mutate.
Le donne ancora in età fertile non escludono di poter avere un figlio, ma si chiedono anche: “Con chi?”.
La maternità, dopo essere stata per secoli obbligo procreativo, si trova a fare i conti con il fatto che le donne hanno imparato a mettere al primo posto passioni, interessi, occupazioni che le portano verso il mondo, a dirsi senza mentire l’insopportabilità della vicinanza continuativa con un bambino, del dispendio di energie fisiche e psichiche che viene loro richiesto dal maternalismo dominante.
Quanti uomini sono oggi disposti a porsi interrogativi analoghi sui ruoli tradizionali di genere, a immaginare nuove forme dell’amore e della genitorialità, rapporti diversi tra vita e lavoro, privato e pubblico?
Di fronte a una figura maschile sorpresa dal cambiamento nella propria fragilità, senso di inadeguatezza, dipendenza da mamme e nonne troppo protettive, o narcisisticamente ripiegata su se stessa, verrebbe da dire che la crisi, prima ancora che di culle, è di case, convivenze, legami amorosi o coniugali duraturi e rassicuranti quanto basta per decidere di fare un figlio.
È chiaro che l’amore, nella forma in cui l’abbiamo ereditato - prolungamento di un vissuto infantile di unità a due, dipendenza da una figura materna creata dal desiderio di un uomo figlio e tenuta per secoli sotto il dominio di una società di padri - si è andato eclissando di fronte all’affermazione di una imprevista libertà femminile.
L’uscita delle donne da un destino di sottomissione, sacrificio della propria individualità, dipendenza da una visione del mondo creata da altri, ha aperto la strada a un percorso di “autonomia” che non è solo economica - oggi minacciata dalla precarietà e dal peso del doppio lavoro, in casa e fuori.
Le ragazze ascoltate da Eleonora Cirant parlano una lingua che si è affrancata dall’ideologia del materno come legge naturale o divina: esprimono senza infingimenti il loro desiderio di avere interessi, passioni, tempi propri.
È come se, spalancate le porte di casa, l’amore trovasse anche per le donne i molteplici investimenti che ha avuto finora solo per l’uomo in virtù della separazione tra la sfera pubblica, a lui riservata, e l’ambito domestico della cura o conservazione della vita, delegata all’altro sesso.
È chiaro che la ricerca di nuove forme di relazione tra i sessi, nel privato come nel pubblico, necessita prima di tutto di un ripensamento di quella che è stata finora la maternità, come obbligo riproduttivo, ma anche come “lavoro d’amore”: cura, incombenze domestiche, sostegno materiale e psicologico ai componenti della famiglia.
Necessita soprattutto che si passi dalla “questione femminile” - uno svantaggio da colmare, parità di diritti e di salario, politiche a favore delle donne in quanto madri - alla messa in discussione da parte di uomini e donne di un’idea di virilità e femminilità che ha visto confusi per secoli dominio e amore, violenza e tenerezza.
Come ha scritto più volte l’economista femminista Antonella Picchio, occorre “cambiare la struttura delle responsabilità sociali rispetto alla produzione delle persone. È, quindi, un problema politico non statistico. Significa, infatti, far emergere come questione sociale, come responsabilità collettiva, ciò che appare come responsabilità esclusiva delle donne”.