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SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.

DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).

"Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro (...)".
venerdì 5 aprile 2024
Della Terra, il brillante colore
2013, nov 27*
Della Terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La (...)

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> DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. --- COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Il filosofo Simone Regazzoni: «Rimettiamo al centro il Pianeta Blu». Intervista di Maria Tatsos.

lunedì 12 settembre 2022

Il filosofo Simone Regazzoni: «Rimettiamo al centro il Pianeta Blu»

È ora di ripensare la nostra identità e mettere l’Oceano e non la Terra al centro dell’idea di appartenenza. È l’invito del filosofo Simone Regazzoni che ripercorrendo la storia del pensiero vi scopre la chiave del futuro: sentirsi interconnessi agli altri esseri viventi. Dell’intero Universo

di MARIA TATSOS (Corriere della Sera, "Io Donna", 12-09-2022)

Il 24 dicembre del 1972 il New York Times pubblica una foto destinata a entrare nella Storia. È lo scatto realizzato dagli astronauti dell’Apollo 17 in viaggio verso la Luna, che ritrae la Terra. Per la prima volta, l’occhio umano scopre che il pianeta è una sfera blu, in cui è l’acqua - e non la terraferma - a colpirci per vastità.Noi Sapiens con l’Oceano abbiamo avuto un rapporto contraddittorio: ci affascina e ci spaventa, con fare predatorio sfruttiamo le sue ricchezze come se fossero inesauribili e lo inquiniamo come se potesse, per magia, rigenerarsi come l’araba fenice. È giunto il momento di ripensare alla nostra relazione con l’elemento acquoreo intorno a noi. E per farlo abbiamo sentito il filosofo Simone Regazzoni, che insegna presso l’Irpa di Milano (Istituto di Ricerca di Psicanalisi Applicata) e che al tema ha dedicato Oceano. Filosofia del pianeta (Ponte alle Grazie).

      • Iniziamo dal nome: è più giusto chiamare il nostro pianeta Terra, o Oceano?

Propongo di chiamarlo Oceano, ma non sono il primo. Sul sito della Nasa è definito Ocean Planet, o Water World (Pianeta Oceano o Pianeta Acquoreo). Da un ventennio, si tende a sottolineare la centralità dell’Oceano per la nostra vita. Definire Terra il nostro pianeta è una visione riduttiva, legata agli umani, e non a tutte le altre specie biologiche che per l’80 per cento vivono nei mari. Cambiare nome non è un vezzo, ma ci consente di prendere consapevolezza di un altro modo di abitare questo mondo, cioè iperconnessi con gli altri viventi, come se fossimo immersi in una grande bolla oceanica in movimento, partecipi di questo grande flusso con tutto ciò che è vita. Uno sguardo differente può aiutarci a cambiare i nostri comportamenti. La natura non è qualcosa di altro da noi.

      • Simone Regazzoni: «Nasciamo in un piccolo Oceano»

      • Occorre rivalutare il rapporto con gli oceani perché è da lì che veniamo?

Sì, è così. Specie evolute come la nostra hanno mantenuto un tratto legato all’origine della vita. Nasciamo in un mare interiore, una sacca d’acqua che è l’utero materno che, come ha detto lo psicanalista Sándor Ferenczi, è come un piccolo Oceano. Non c’è futuro per il pianeta e per la nostra vita se non ci prendiamo cura delle acque. L’aumento della CO2 comporta un rialzo della temperatura che influisce sulle correnti oceaniche. Basti pensare alla corrente del Golfo, che determina il clima del nord Europa. Sono sufficienti pochi gradi in più e il pianeta diventa invivibile. E anche se abitiamo lontano dagli oceani, il nostro modo di vivere e il nostro futuro dipendono da loro e da come li trattiamo.

      • Quando l’umanità si è resa conto dell’esistenza di queste enormi distese d’acqua?

Oceano, in greco “okeanòs”, è parola talmente antica che non è greca. Va a cogliere un tipo di esperienza primigenia che Omero e gli antichi filosofi presocratici hanno descritto molto bene: per loro è un fiume che circola, salendo dal mare verso il cielo e poi ritorna al mare. Noi oggi la chiamiamo idrosfera. Questo dava la consapevolezza di essere immersi in un tutto che ci avvolge, un’immagine che è antica e anche contemporanea: il finale di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick mostra un feto in una sorta di bolla d’acqua di fronte al pianeta Terra, come se si specchiassero l’uno nell’altra. Questa interconnessione gli antichi la conoscevano bene e l’avevano denominata Okeanòs, una figura mitica che non era né maschile, né femminile, più potente di Zeus.

      • [Foto] Simone Regazzoni. OCEANO Filosofia del pianeta, Ponte alle Grazie, 224 pagg, 16.00 €

      • La visione greca è quindi collegata a cosmogonie più antiche?

Gli egizi parlano di un’origine di tutto a partire dall’Oceano. Dalla Mesopotamia giunge la più antica mappa nota, conservata presso il British Museum, dove il mondo è attorniato da un fiume salato. Le cosmogonie dell’area mediterranea, di provenienza orientale, presentano questo elemento fluido, in divenire, da cui tutto proviene e resta in profonda connessione. Il primo filosofo della Storia, Talete, le conosceva e sosteneva che all’inizio c’è l’acqua, sulla quale la Terra scorrerebbe come sopra una tavola ben levigata. È il primo a evocare quest’immagine, ma già nel mito del diluvio universale c’è un’arca-microcosmo che galleggia. Quest’idea di terra instabile che scorre su qualcosa di fluido viene dimenticata, per poi riemergere in tempi recenti con la teoria della deriva dei continenti. Gli antichi non erano così lontani dalla verità.

      • L’Oceano ci appare mostruoso, ci spaventa ma allo stesso tempo ci attrae. Perché?

Perché in una Terra che oggi è quasi interamente mappata rimane per gran parte inesplorato e racchiude forme di vita a noi ancora ignote. È come se fosse una parte intima di noi che al contempo ci è estranea. È uno spazio vicino a noi, ma alieno e la sua forza non si può addomesticare. Pensiamo alle grandi piattaforme petrolifere, progettate per resistere alle correnti: possono naufragare investite da un’onda anomala, fenomeno che non sappiamo spiegare e che incide anche sulla navigazione. Al contempo, ci affascina perché è l’ultimo fronte esplorabile del nostro pianeta. È lo spazio che rimane per l’avventura, come il cielo.

      • [Foto] Oceanix, in Corea del Sud la città galleggiante del futuro contro l’innalzamento del livello del mare

      • Melville, geniale creatore di Moby Dick, cosa ha voluto rappresentare?

Moby Dick è qualcosa di portentoso, non afferrabile e non controllabile, che ci attira e ci fa paura. È simbolo dell’Oceano che Melville tratteggia a partire da un quadro di Turner, Whalers, dove c’è una balena nera che esce dalle acque. Entrambi avevano visto che lo spazio oceanico rappresenta quel tipo di forza, che è al contempo emblema di pienezza vitale e rischio di distruzione. I surfisti delle grandi onde, quelle di oltre 20 metri, cercano di non contrapporsi alla loro energia, ma di entrare in consonanza. È quella vita che non conosce morte, di cui facciamo esperienza come il massimo dell’intensità, al limite della disgregazione. È una forza vitale immortale. Siamo fatti al 50-60 per cento di acqua.

      • Immergersi significa ritornare al nostro elemento primordiale, «entrare in contatto con il pesce che nuota in me», come lei scrive.

Se mettiamo un neonato in piscina, non ha paura. Non a caso il parto in acqua è tra i meno traumatici. Siamo dei pesci modificati: ce lo dice la biologia, e anche il filosofo Empedocle diceva che siamo stati pesci. Nuotare significa riscoprire quella dimensione. D’estate, il contatto con il mare ci permette di scaricare la tensione accumulata nel nostro vivere da terrestri. Nuotare è un modo di pensare: Platone afferma che non saper scrivere è come non saper nuotare. Greci e romani davano al nuoto grande importanza, che nel tempo si è persa. Solo dall’Ottocento la spiaggia diventa luogo-soglia per tornare in contatto con una parte di noi rimossa.

      • La presenza di mari su altri pianeti ci dà speranza di trovare anche altre forme di vita?

Questa è fra le scoperte più recenti. Nei nostri oceani, abbiamo visto che c’è possibilità di vita anche senza luce solare e fotosintesi - esistono dei batteri chemioautotrofi, che ricavano energia ossidando l’acido solfidrico - quindi anche su vari pianeti e lune ghiacciati con oceani sotto la crosta potrebbero esserci condizioni adatte. Questo cambia anche la nostra prospettiva del nostro pianeta nel cosmo. La Terra non è al centro dell’universo, anche se mentalmente ci consideriamo ancora tali. Se pensiamo a un pianeta Oceano connesso ad altri significa pensare alla possibilità di un universo biologico anche nel nostro sistema solare.

      • Il suo libro è stato concepito a Maupiti, in un atollo corallino della Polinesia francese. Che effetto ha avuto pensare all’Oceano, circondato dalle acque?

Per me la filosofia non è un discorso astratto. Parte da un’esperienza, da un vissuto e da una biografia. Maupiti è un luogo non ancora invaso dai resort turistici, consente l’esperienza della labilità della terraferma: ci si trova su un rialzo di sabbia che si alza di pochi metri sulle acque, è come essere alla deriva in una zattera. Mi sono trovato in mezzo a un brulicare di vita - coralli, pesci - con la percezione che da un momento all’altro quella distesa blu con cui mi sono sentito in consonanza può cancellare ciò che è stabile. È stata l’occasione di una riflessione suscitata da un’esperienza viva e carnale, a partire dalla quale confrontarmi con i testi filosofici.

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