Testimone delle tragedie europee del Novecento, il filosofo non si arrese mai all’angoscia
Croce: la libertà è lotta perenne
Nel 1966 la ricorrenza del centenario crociano innescò discussioni aspre sulla sua opera
La riflessione. Per lui il dramma non è la morte: sarebbe peggio restare chiusi nel carcere della vita
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 12.02.2016)
Le ricorrenze sono ingannevoli. Fanno credere che si celebrino o si ricordino sempre le stesse cose come immobilizzazioni della memoria, incrostazioni del passato. Ma non è così. Il lavoro ineludibile e inesorabile del tempo si esercita anche sul passato. Uno stesso passato vive quale apparve ai suoi tempi, poi quale appare al presente, e ancora vivrà quale apparirà nel futuro.
Nel caso di Benedetto Croce, i centocinquant’anni dalla sua nascita, il 25 febbraio 1866, ricorrono in modo evidentemente diverso che il centenario nel 1966. Allora nel ricordarlo risuonarono, anche più forti che lui vivo, le polemiche, le contrapposizioni, le riprovazioni che ne avevano accompagnato la lunga, centrale presenza nella vita civile e culturale italiana nella prima metà del Novecento, fino alla morte il 20 novembre 1952. Croce era stato, infatti, esaltato per sessant’anni come grande maestro e profondo rinnovatore della cultura e della vita morale italiana, oppure, all’inverso, dannato nella memoria come filosofo senza effettivo nerbo di pensiero, responsabile di un isolamento provinciale della cultura italiana e (addirittura!) di uno scarso sviluppo delle scienze in Italia, fiero conservatore fino a un equivoco rapporto col fascismo, sempre avverso alle più giovani e nuove correnti della vita nazionale. Oggi, per i centocinquant’anni dalla nascita, non si può dire altrettanto.
Le cose dette nel 1966 con un fortissimo animus polemico sono ripetute oggi, per così dire, a freddo, come frasi fatte di conformistici luoghi comuni. E allo stesso modo le cose dette allora col tono fervente di una perorazione non solo filosofica o teoretica sono dette oggi col tono di una distesa certezza non solo di ordine storico.
Che vuol dire? Croce è uscito dal panorama dell’attualità militante e urgente? Si è eclissata anche la proiezione della sua ombra postuma? Non è così. Non si tratta di sepoltura o epilogo, bensì, come per ogni altro grande nome, del passare dalla tumultuosa contingenza del tempo alla perennità dei classici, alla perenne attualità delle voci che di volta in volta percepiscono ed esprimono qualcosa di sempreverde e imperituro circa l’essenza e l’esperienza della storia, ossia del mondo e dell’uomo.
L’eredità del suo pensiero è, su questo piano, molteplice: irriducibile specificità della poesia, e suo valore anche conoscitivo; vari aspetti realistici della politica e del diritto; universale storicità del pensiero e della vita; modello etico-politico di un vivere civile che vada oltre la logica ferrea del mors tua, vita mea e si proponga livelli superiori di libertà e di dignità umana; concezione pragmatica della conoscenza e del lavoro scientifico con le loro mirabili scoperte e invenzioni; fecondità della distinzione fra momenti ed espressioni diverse dell’attività umana; eterna problematicità della vita e del mondo, che nulla, tuttavia, ha di misterioso o di paralizzante.
Sono punti di indiscutibile rilievo da più punti di vista. Non ci si fa, comunque, un’idea di lui adeguata a ciò che egli fu nella storia del suo tempo senza pensare alla progressiva drammatizzazione della vita che ne connotò il sentire e il pensiero. Giunse a scrivere che la civiltà è un fiore che nasce sulla nuda roccia e si radica in essa, ma che un evento improvviso può sradicare e disfare. Oppure che non è la morte, evento naturale, il dramma dell’uomo, e che vero dramma sarebbe, invece, il restare indefinitamente chiusi nel carcere della vita. Oppure che il motore della vita e della storia è in una spinta vitale, in una terribile forza egoistica senza ingombri di morale o di altro. E ciò a non parlare di tante e tante sue mirabili pagine di letteratura e di storia.
L’ humanitas della grande tradizione europea, in cui era interamente immerso, fu lo spirito reggente della ispirazione filosofica e morale di Benedetto Croce. In questo spirito fu un grande testimone della crisi europea del suo tempo. Non fu mai, però, un filosofo della crisi, del mistero, dell’angoscia, dello smarrimento esistenziale. Ricordava che le autentiche e profonde angosce della sua giovinezza lo avevano portato a convivere con l’angoscia, a renderla domestica e nota, e perciò a domarne la tirannia.
Non intendeva come sistema il suo pensiero, ma come una perenne sistemazione da offrire ad altri quale strumento di lavoro. Credeva nella positività della storia e della vita, e riteneva che la libertà ne fosse la vera cifra, sia quando trionfava, sia quando la si negava e opprimeva, senza poter, peraltro, impedire che rinascesse, perché la sua perennità storica non è quella di un pigro, ininterrotto vegetare, ma una drammatica, perenne lotta col suo opposto.
Era sempre, insomma, il filosofo che nel 1909 aveva scritto che «la verità è sempre cinta di mistero, ossia è un’ascensione ad altezze sempre crescenti, che non hanno giammai il loro culmine, come non l’ha la vita», la quale è essa «il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito». Una profonda lezione che spiega il suo persistere, ormai poco discutibile, come grande classico del mondo moderno, al di là del caduco e del contingente che nelle sue pagine, come in quelle di ogni altro grande, si ritrova.