La Questione Meridionale ridotta a fattore M
di Carlo Formenti *
Perché il Sud occupa così poco spazio nei media? O, volendo allargare la prospettiva, perché la Questione Meridionale non è sopravvissuta al cambio di secolo? Questi gli interrogativi da cui prende le mosse una ricerca firmata da due docenti dell’Università del Salento (Valentina Cremonesini e Stefano Cristante, “La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo”, Mimesis editore). La ricerca, alla quale hanno contribuito altri studiosi, prende in esame un trentennio di edizioni del TG1 e dei due maggiori quotidiani italiani, il Corriere della Sera e Repubblica, oltre ad alcune fiction televisive e pellicole cinematografiche e siti web arrivando alla conclusione che, negli ultimi vent’anni, in particolare in quelli successivi al 2000, il racconto del Sud ha occupato sempre meno spazio nell’agenda dei media e si è progressivamente appiattito su una serie di luoghi comuni negativi: criminalità organizzata, arretratezza economica e culturale, corruzione, malgoverno, parassitismo, ecc.
Nel saggio introduttivo i due autori prendono le mosse dall’analisi gramsciana della Questione Meridionale e dal suo tentativo di mobilitare le energie del neonato Partito Comunista per costruire un blocco storico fondato sull’alleanza fra proletariato settentrionale e contadini meridionali. Tuttavia, visto che il libro si occupa soprattutto, anche se non esclusivamente, dell’immaginario mediatico sul Sud, la loro attenzione si concentra soprattutto sul Gramsci teorico dell’egemonia, dei processi che consentono di costruire senso comune. Una lezione metodologica che attraversa sottotraccia altre parti del libro e rimbalza anche da alcune (non da tutte) delle sedici interviste ad altrettanti intellettuali meridionali (giornalisti, registi cinematografici e televisivi, scrittori) chiamati a rispondere alle stesse domande formulate in apertura.
Dalle ricerche dedicate ai singoli media e dalle interviste emerge uno scenario complesso, a volte contraddittorio, ma dal quale si possono enucleare alcuni punti fermi. La transizione dalla Questione Meridionale al fattore M, cioè a una rappresentazione negativa e “tipizzata” di un Sud su cui non vale più la pena di interrogarsi, in quanto inchiodato a uno stato permanente e sostanzialmente immodificabile di degrado economico, politico, sociale e culturale, è il prodotto di una serie di processi intrecciati e complessi. In particolare: la transizione a una nuova fase dell’economia mondiale associata all’avvento di politiche neoliberiste e antistataliste ha delegittimato i discorsi sulla necessità di dirottare risorse pubbliche verso il Sud per agevolarne sviluppo e crescita; la perdita di posizioni che l’intero Paese ha subito nel corso di tale mutazione (anche il Centro e il Nord hanno subito processi di “meridionalizzazione”) ha progressivamente spostato l’attenzione sulla Questione Settentrionale (paradossalmente il Sud, grazie alle sue tradizionali strutture di welfare familiare, sembra avere assorbito meglio l’impatto della crisi).
Nessun elemento in controtendenza? In effetti, qualche considerazione positiva emerge. Da un lato, l’irruzione sulla scena delle masse dei migranti ha “relativizzato” e parzialmente neutralizzato il fattore M, innescando una riflessione sulla relazione fra Meridione d’Italia e Paesi dell’area mediterranea (riflessione che ha avuto il suo picco nel “pensiero meridiano” di Franco Cassano). Dall’altro i destini del Sud sono sempre più venuti articolandosi secondo diverse traiettorie regionali, un fattore che emerge con particolare evidenza dalle interviste a registi, scrittori e film maker, i quali richiamano l’attenzione sui Sud (al plurale) che si rispecchiano nella più recente fiction letteraria, cinematografica e televisiva.
Tuttavia è proprio su quest’ultimo fattore che si divaricano le opinioni, anche perché questa evoluzione culturale si accompagna al venire meno della funzione e del ruolo dell’intellettuale impegnato (una specie in via di estinzione non solo al Sud) e alla sua sostituzione da parte di uno strato di operatori culturali variamente occupati nella produzione di immaginario. Per alcuni degli intervistati questo è un fattore positivo, in quanto aiuta a convogliare le energie verso nuove forme di progettualità locale, autonoma dalle vecchie logiche assistenziali, per altri (Goffredo Fofi su tutti) siano invece di fronte al degrado di un patrimonio culturale folclorizzato e devitalizzato che viene riciclato a fini di marketing territoriale (come ti vendo la Puglia ai milanesi). Il dibattito è aperto.
Carlo Formenti