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PAURA DELLA LIBERTA’: ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA....

L’INGENS SYLVA E LA PAURA DELLA LIBERTA’: CARLO LEVI, NELL’ORIZZONTE DI VICO, BENJAMIN, ED ENZO PACI. Una nota - di Federico La Sala

(...) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”
mercoledì 23 settembre 2015
[...] Noi oggi capiremmo ben poco di quelle pagine [cioè, di Paura della libertà] se non le collocassimo in un contesto complesso. Quando Levi stende le sue note in una sorta di finis terrae che potrebbe accomunarlo alla condizione di Benjamin, la scena del mondo è estremamente confusa. [...]
[...] mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola (...)

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> L’INGENS SYLVA E LA PAURA DELLA LIBERTA’ ---- CARLO LEVI E LA DEMOCRAZIA DELLA PAURA. Una nota di Nicola Tranfaglia (a un art. di Nicola Fanizza)

mercoledì 15 ottobre 2014

CARLO LEVI E LA DEMOCRAZIA DELLA PAURA... Una nota di Nicola Tranfaglia (a un art. di Nicola Fanizza):

CARLO LEVI E LA QUESTIONE MERIDIONALE

di Nicola Tranfaglia *

1. Formazione e giovinezza

Per capire il posto che Carlo Levi occupa nella storia della questione meridionale e del meridionalismo democratico, è necessario ricordare, sia pure in maniera sintetica, quale sia stata la sua formazione culturale, prima ancora che politica, nella Torino dei primi anni del Novecento, quell’autentico laboratorio culturale e politico in cui emersero tra la guerra e il dopoguerra le grandi personalità di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.

Tra i due, il liberale rivoluzionario e il comunista, Carlo Levi scelse il primo ma, come il suo maestro, non restò sordo a istanze e esigenze che venivano, attraverso l’ordine nuovo, da quella classe operaia che costituiva la classe più interessante dell’ex capitale subalpina negli anni venti, caratterizzati dallo sviluppo impetuoso dell’industria meccanica e automobilistica.

Puntarono, insomma, su Piero Gobetti come un riferimento Levi e i suoi più giovani amici, senza perdere di vista la classe operaia e con un pregiudizio, naturalmente sfavorevole, nei confronti di quella borghesia, sia agraria che urbana, che secondo i giudizi di Gobetti, come di Gramsci, avevano ceduto al fascismo, pensando di poterlo usare contro il pericolo della rivoluzione bolscevica e poi abbandonarlo e ritornare al potere.

“Dovremo diventare una generazione di storici” scrisse, proprio Gobetti, di fronte a quella marcia verso il potere del movimento fascista che fu di fatto una controrivoluzione preventiva rispetto a una rivoluzione proletaria che non ci fu.

In un articolo apparso nei mesi che precedono il delitto Matteotti , nella primavera del 1924, sulla Rivoluzione liberale e dedicato ai “Torinesi di Carlo Felice”, possiamo verificare .il giudizio nettamente negativo di Carlo Levi nei confronti di quei borghesi che difendono in ogni caso la situazione esistente della società anche quando è contraria alla giustizia come alla libertà.

O ancora nel ritratto, sempre apparso sulla rivista di Gobetti che riguarda la figura dell’ex presidente del consiglio e leader della destra liberale Antonio Salandra: qui Levi critica con forza non soltanto il ruolo di aiuto ai fascisti svolto da Salandra ma anche la sua mentalità conservatrice, l’assenza di qualsiasi interesse per le masse popolari e per i contadini.

Ma è soprattutto negli articoli che scrive successivamente nel primo (e ultimo) numero del giornale clandestino “Voci di officina “ che esce nel 1930 e nei “Quaderni di G. e L.” pubblicati a Parigi da Carlo Rosselli che il giovane medico- pittore torinese espone le sue idee di fondo sulla politica e sul futuro dell’Italia e dell’Europa.

In termini sintetici possiamo dire che Carlo Levi insiste, da una parte, sulla centralità di un metodo liberale rivoluzionario contro la dittatura fascista e, dall’altra parte, sulla necessità di ripartire dai valori fondamentali che si sono affermati con le grandi rivoluzioni del Settecento.

C’è in Carlo Levi la speranza della possibilità di un rinnovamento profondo della politica e dei partiti, la scelta per un movimento come quello di Giustizia e Libertà che esordisce invitando tutti ad archiviare le tessere dei partiti e intende costruire qualcosa di innovativo e di rivoluzionario come la strada unica per battere l’oppressione fascista.

Tra il 1939 e il 1940, durante la fase ambigua della sospensione della guerra , prima della grande avanzata nazista in Occidente, Carlo Levi scrive un saggio di grande impegno e originalità intitolato PAURA DELLA LIBERTA’ pubblicato da Einaudi nel 1945 e ristampato l’anno scorso negli “Scritti politici” a cura di David Bidussa sempre editi da Einaudi che a me pare decisivo per capire la maturazione politica del torinese e gli scritti del periodo successivo tra cui è centrale il romanzo -saggio CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI uscito nello stesso anno e destinato a un grande e duraturo successo tra i lettori di tutto il mondo.

In “ PAURA DELLA LIBERTA’”, Levi, influenzato più ancora che da Ortega e Battaille, dei grandi autori della psicoanalisi Freud e Jung, interpreta l’oppressione totalitaria degli anni trenta e quaranta come l’espressione di pulsioni costanti o ricorrenti delle comunità umane, che nascono non soltanto dal passato dell’uomo ma anche della contrapposizione tra il senso sacro della politica e la tendenza umana a una visione più volgare della società.

Lui cerca di interpretare le origini di queste pulsioni e scrive pagine di grande lucidità sulle difficoltà mai superate degli esseri umani di uscire dalla fase primitiva e animale e di affrontare la sfida della libertà interna nel senso più ampio dell’espressione. **

Libertà come autonomia, come rischio, come capacità di affrontare quel che non si conosce e che, forse in parte, non si può conoscere.

2. CRISTO e il suo significato

Con questa formazione culturale, con questi interrogativi di fondo, Carlo Levi scrive di getto tra Roma e Firenze, nel 1943-1944 il romanzo che è anche saggio e memoriale sugli anni di confino in Lucania destinato a dargli una fama mondiale come scrittore, lui che aveva cominciato e continuerà a dedicarsi alla pittura, oltre che alla scrittura.

Dal punto di vista storico, che è quello che sto seguendo,il “CRISTO” segna una profonda rottura nella tradizione saggistica e letteraria sul Mezzogiorno e non soltanto, o particolarmente, perché non è scritto da un meridionale .

Soprattutto perché guarda alla società contadina del mezzogiorno , e della Basilicata in specie, con occhi nuovi da più di un punto di vista.

Con occhi di pittore che guarda i volti, il paesaggio, le figure, con una straordinaria fedeltà e immediatezza.

Con occhi di intellettuale che guarda qualcosa che non immaginava potesse esistere nell’Italia del Novecento.

Occhi che assomigliano a quelli di un antropologo particolarmente partecipe e appassionato.

Ma anche occhi di politico nel senso più nobile della parola, cioè di quei politici che credono alla possibilità del cambiamento attraverso la lotta democratica.

Il “CRISTO” è un classico nella misura in cui utilizzando le parole e la letteratura riesce a comunicare ai lettori, anche quelli non particolarmente agguerriti, nello stesso tempo il lamento e la necessità di riscatto della società contadina meridionale.

Non a caso è lui a identificare nei saggi di Rocco Scotellaro l’opera che meglio va avanti sulla strada indicata dal suo romanzo .

Egli ha un’altra intuizione che svilupperà in opere successive dedicate al Mezzogiorno come “Le parole sono Pietre” ed è quella di vedere, prima di altri scrittori, il conflitto destinato ad estendersi e ad esplodere negli ultimi decenni del secolo tra i paesi sviluppati e quelli del sottosviluppo, tra il Nord e i tanti Sud del mondo.

Questo è uno, ma non il solo, dei motivi di attualità dell’opera di Carlo Levi, ed è sorprendente che la sua opera completa non sia riproposta ai lettori e molti suoi libri siano addirittura da tempo esauriti.

Levi ha capito con grande chiarezza il valore emblematico della questione meridionale e anche negli ultimi anni della sua vita la vedrà sempre di più come il simbolo di una questione destinata a rimanere tale nell’era della globalizzazione economica e culturale.

Nicola Tranfaglia

* Fonte: http://www.proteofaresapere.it/contributi/questione.htm

**

LA PARTE EVIDENZIATA è utilizzata come nota di commento dallo stesso Tanfaglia, all’art. (vedere in fondo) di Nicola Fanizza, "La democrazia della paura (1)", apparso su "Nazione Indiana", il 19 settembre 2006 (fls)


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