L’Unesco ha dichiarato il 2015 l’anno della luce
Un lungo viaggio attraverso la luminosità: dal microscopio alle stelle
di Piero Bianucci (La Stampa, 18.01.2015)
Le parole che state leggendo hanno percorso migliaia di chilometri sotto forma di impulsi di luce imprigionati in sottili fili di vetro. Il pianeta intero è avvolto in una ragnatela di questi fili che chiamiamo Internet. Gli impulsi corrispondono a due soli segni: 0 e 1, l’alfabeto digitale. Parole, musica, fotografie, filmati, finanza, giornali, programmi radio e tv, sms, twitter, tutto oggi è scritto con questo semplice codice di minuscoli lampi e scavalca montagne e oceani correndo a 200 mila chilometri al secondo.
Nel 1870 il fisico irlandese John Tyndall dimostrò con uno zampillo luminoso che un raggio di luce poteva essere incanalato nel percorso di un getto d’acqua. Fu quella la prima fibra ottica, poco pratica perché allo stato liquido, ma carica di promesse all’epoca insospettabili. In attesa di meglio, la scoperta fu applicata a giochi d’acqua nelle fontane di epoca vittoriana. Amico di Faraday, un ex rilegatore di libri autodidatta, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, Tyndall fu anche il primo scienziato a dimostrare sperimentalmente l’effetto serra. Due contributi che sarebbero stati compresi nella loro importanza solo un secolo dopo.
La prima applicazione delle fibre ottiche arriva nel 1956 in un gastroscopio: servì ai medici per guardare dentro lo stomaco dei pazienti. Nello 1965 Charles Kao, premio Nobel per la fisica nel 2009 (meglio tardi che mai), perfezionò le fibre ottiche e suggerì la loro applicazione nelle telecomunicazioni.
I tempi non erano maturi: Laser e Led - tecnologie necessarie per ottenere impulsi luminosi brevi, puri e potenti - erano ai loro inizi, l’optoelettronica quasi non esisteva, le fibre erano ancora troppo poco trasparenti e flessibili, non si sapeva come saldarle e come piegarle in curve strette. Così trovarono applicazione in lampade che ebbero una effimera fortuna, zampilli di luce sotto vetro che nei salotti degli Anni 60 e 70 imitavano i getti di acqua luminosi di Tyndall.
Le fibre ottiche sono fatte di vetro o di polimeri plastici tirati in filamenti dal diametro di un capello (125 millesimi di millimetro). Nella sezione di questi esili cavi trasparenti l’indice di rifrazione varia dal centro alla periferia in modo tale che la luce venga deviata e trattenuta dentro la fibra anziché sfuggire dalla «buccia» del filamento. La luce che percorre una fibra ottica subisce quindi continue riflessioni che la mantengono incanalata, con perdite minime, su percorsi che possono essere lunghissimi.
La luce utilizzata non è quella visibile ma appartiene a particolari bande dell’infrarosso, con lunghezze d’onda comprese tra 850 e 1550 milionesimi di millimetro. I nostri occhi non percepiscono questo genere di luce ma certi serpenti, insetti e altri animali che hanno occhi sensibili all’infrarosso potrebbero vederla.
Scavalcare l’Oceano Atlantico senza amplificazioni intermedie è alla portata di questa tecnologia. A questo punto «basta» avere una sorgente di luce pura e rapidamente pulsata (appunto i Laser o i Led) come trasmettitore, la fibra ottica come mezzo trasmissivo e un sensore di luce al punto di arrivo, e il gioco è fatto: abbiamo un sistema di telecomunicazione su fibra ottica. E poiché la quantità di informazioni caricabile su un’onda elettromagnetica aumenta al diminuire della lunghezza delle onde utilizzate, o se volete all’aumentare della frequenza, e gli impulsi luminosi durano miliardesimi di secondo, la luce può veicolare una quantità di dati enormemente maggiore delle onde radio, microonde incluse.
Su una singola fibra, per intenderci, può viaggiare l’intero traffico telefonico tra due continenti. Il primo cavo ottico transatlantico entrò in servizio nel 1988. I cristalli fotonici segnarono nel 1996 un ulteriore miglioramento delle fibre e da allora i progressi non si sono mai fermati.
Trattandosi di cosa nuova e costosa, furono i militari americani i primi utilizzatori della comunicazione su fibra ottica. Incominciò la Marina statunitense sulla nave ammiraglia della Sesta Flotta, seguì nel 1976 l’Aeronautica militare cablando i propri aerei. La trasmissione di un segnale televisivo su fibra era già stato esibito nel 1971 alla regina Elisabetta d’Inghilterra, nel 1980 toccò al popolo in occasione delle Olimpiadi invernali di Lake Placid (Usa). Da allora la tv su fibra non ha fatto che crescere, e ancora più la trasmissione dati. Senza le autostrade ottiche non esisterebbe Internet, non esisterebbe questo mondo, questa società. La tecnologia è cultura, costume, politica.
Fiat lux
Dio? È soprattutto luce
2015, anno della luce promosso dall’Unesco
Domani a Parigi, tra i relatori, ci sarà il cardinale Ravasi. Un brano in anteprima
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 18.01.2015)
In tutte le civiltà la luce passa da fenomeno fisico ad archetipo simbolico, dotato di uno sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiosa. La connessione primaria è di natura cosmologica: l’ingresso della luce segna l’incipit assoluto del creato nel suo essere ed esistere. Emblematico è l’avvio stesso della Bibbia, che è pur sempre il «grande codice» della cultura occidentale: Wayy’omer ’elohîm: Yehî ’ôr. Wayyehî ’ôr, «Dio disse: "Sia la luce!" e la luce fu!» (Genesi 1,3). Un evento sonoro divino, una sorta di Big bang trascendente, genera un’epifania luminosa: si squarcia, così, il silenzio e la tenebra del nulla per far sbocciare la creazione.
Anche nell’antica cultura egizia l’irradiarsi della luce accompagna la prima alba cosmica, segnata da una grande ninfea che esce dalle acque primordiali generando il sole. Sarà soprattutto questo astro a diventare il cuore stesso della teologia dell’Egitto faraonico, in particolare con le divinità solari Amon e Aton. Quest’ultimo dio, con Amenofis IV-Akhnaton (XIV sec. a. C.), diventerà il centro di una specie di riforma monoteistica, cantata dallo stesso faraone in uno splendido Inno ad Aton, il disco solare: tale riforma, però, passerà come una meteora di breve durata nel cielo del tradizionale politeismo solare egizio.
Similmente l’arcaica teologia indiana dei Rig-Veda considerava la divinità creatrice Prajapati come un suono primordiale che esplodeva in una miriade di luci, di creature, di armonie. Non per nulla, in un altro movimento religioso originatosi in quella stessa terra, il suo grande fondatore assumerà il titolo sacrale di Buddha, che significa appunto «l’Illuminato».
E, per giungere in epoche storiche più vicine a noi, anche l’Islam sceglierà la luce come simbolo teologico, tant’è vero che un’intera "sura" del Corano, la XXIV, sarà intitolata An-nûr, «la Luce». Al suo interno un versetto sarà destinato a un enorme successo e a un’intensa esegesi allegorica nella tradizione "sufi" (in particolare col pensatore mistico al-Ghazali nell’XI-XII sec.).
È il verso 35 che suona così: «Dio è luce in cielo e sulla terra. La sua luce è come quella di una lampada collocata in una nicchia. La lampada è rinchiusa in un cristallo, è come una stella dallo splendore abbagliante ed è accesa dall’olio di un ulivo benedetto ... Luce su luce è Dio. Egli guida chi ama verso la sua luce».
Si potrebbe continuare a lungo in questa esemplificazione passando attraverso le molteplici espressioni culturali e religiose di Oriente e di Occidente che adottano come cardine teologico un dato che è alla radice della comune esperienza esistenziale umana. La vita, infatti, è un «venire alla luce» (come in molte lingue è definita la nascita), ed è un vivere alla luce del sole o guidati nella notte dalla luce della luna e delle stelle.
Dati anche i limiti della nostra analisi, noi ora ci accontenteremo di due sole osservazioni essenziali, destinate soltanto a far intuire la complessità dell’elaborazione simbolica edificata su questa realtà cosmica. Da un lato approfondiremo la qualità "teo-logica" della luce per cui essa è un’analogia per parlare di Dio; dall’altro lato, esamineremo la dialettica luce-tenebre nel suo valore morale e spirituale. Avremo come punto di riferimento esemplificativo la Bibbia che ha generato per la cultura occidentale un "lessico" ideologico e iconografico fondamentale. Essa può offrirci un paradigma sistematico esemplare generale, dotato di una coerenza interna significativa.
Le Scritture ebraico-cristiane sono state, per altro, un rimando culturale capitale per interi secoli, come riconosceva un testimone ineccepibile e alternativo come il filosofo Friederich Nietzsche: «Tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca e a quella dei Salmi biblici c’è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria» («materiali preparatori» per Aurora).
A differenza di altre civiltà che, in modo semplificato, identificano la luce (soprattutto solare), con la stessa divinità, la Bibbia introduce una distinzione significativa: la luce non è Dio, ma Dio è luce. Si esclude, perciò, un aspetto realistico panteistico, e si introduce una prospettiva simbolica che conserva la trascendenza, pur affermando una presenza della divinità nella luce che rimane, però, «opera delle sue mani».
Si devono intendere così le affermazioni che costellano gli scritti neotestamentari attribuiti all’evangelista Giovanni. In essi si dichiara: ho Theòs phôs estín, «Dio è luce» (1Giovanni 1,8). Cristo stesso si auto presenta così: egô eímì to phôs tou kósmou, «io sono la luce del mondo» (Giovanni 8,12). In questa linea va quel capolavoro letterario e teologico che è l’inno che apre il Vangelo di Giovanni ove il Lógos, il Verbo-Cristo, è presentato come «luce vera che illumina ogni uomo» (1,9).
Quest’ultima espressione è significativa. La luce viene assunta come simbolo della rivelazione di Dio e della sua presenza nella storia. Da un lato, Dio è trascendente e ciò viene espresso dal fatto che la luce è esterna a noi, ci precede, ci eccede, ci supera. Dio, però, è anche presente e attivo nella creazione e nella storia umana, mostrandosi immanente, e questo è illustrato dal fatto che la luce ci avvolge, ci specifica, ci riscalda, ci pervade. Per questo anche il fedele diventa luminoso: si pensi al volto di Mosè irradiato di luce, dopo essere stato in dialogo con Dio sulla vetta del Sinai (Esodo 34,33-35).
Anche il fedele giusto diventa sorgente di luce, una volta che si è lasciato avvolgere dalla luce divina, come afferma Gesù nel suo celebre «discorso della Montagna»: «Voi siete la luce del mondo ... Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Matteo 5,14.16).
Sempre in questa linea, se la tradizione pitagorica immaginava che le anime dei giusti defunti si trasformassero nelle stelle della Via lattea, il libro biblico di Daniele assume forse questa intuizione ma la libera dal suo realismo immanentista trasformandola in una metafora etico-escatologica: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (12,3).
E nel cristianesimo romano dei primi secoli - dopo che si era scelta la data del 25 dicembre per il Natale di Cristo (quella data era la festa pagana del dio Sole, nel solstizio d’inverno che segnava l’inizio dell’ascesa della luce, prima umiliata dall’oscurità invernale) - si inizierà nelle iscrizioni sepolcrali a definire il cristiano là sepolto come eliópais, «figlio del Sole». La luce che irradiava Cristo-Sole era, così, destinata ad avvolgere anche il cristiano.
Anzi, nella successiva tradizione cristiana, si stabilirà una sorta di sistema solare teologico: Cristo è il sole; la Chiesa è la luna, che brilla di luce riflessa; i cristiani sono astri, non dotati però di luce propria ma illuminati dalla luce suprema celeste. Che si tratti di una visione squisitamente simbolica destinata a esaltare la rivelazione e la comunione tra la trascendenza divina e la realtà storica umana appare evidente in un passo sorprendente ma coerente dell’ultimo libro biblico, l’Apocalisse, ove nella descrizione della città ideale del futuro escatologico perfetto, la Gerusalemme nuova e celeste, si proclama: «Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (22,5). La comunione dell’umanità con Dio sarà allora piena e ogni simbolo decadrà per lasciare spazio alla verità dell’incontro diretto.