SCIENZA E FILOSOFIA
Il buon uso dell’incertezza
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 31 luglio 2016)
Lungi dall’essere sintomi di una qualche forma di insufficienza, dubbio e incertezza rientrano nella normale fisiologia dell’impresa scientifica. Lo ricordava, con la consueta incisività, il fisico teorico Richard Feynman in una conferenza del 1955, citata dall’immunologa Maria Luisa Villa in un suo recente saggio, il cui titolo non potrebbe essere più esplicito, La scienza sa di non sapere: per questo funziona [Guerini e Associati, Milano, pagg. 144, e. 12,50]: «Quando lo scienziato - diceva Feynman - non sa la risposta a una domanda, è ignorante. Quando ha una vaga idea del probabile risultato, è incerto. E quando è sicuro del risultato, maledizione, gli rimane ancora qualche dubbio. [...] La conoscenza scientifica è un insieme di dichiarazioni a vari livelli di certezza, alcune quasi del tutto insicure, altre quasi sicure, ma nessuna assolutamente certa. Noi scienziati ci siamo abituati, e diamo per scontato che sia perfettamente coerente non essere sicuri [...]. Non so però se tutti ne siano consapevoli».
Come spesso capita, la scienza ha tramutato un apparente elemento di debolezza in un punto di forza, e una proprietà negativa in «un fascio di qualità neutrali o decisamente positive». Lo ha fatto innanzitutto sviluppando potenti metodi di valutazione quantitativa dell’incertezza (ne parla diffusamente Marco Li Calzi in un libro divulgativo appena uscito per il Mulino, La matematica dell’incertezza); e poi ideando delle procedure efficaci per ottenere risultati e previsioni «ragionevolmente certi», cioè tali che il loro grado di incertezza, comunque non nullo, sia ridotto al minimo e segni il confine dei dominî dell’esperienza temporaneamente inesplorati.
Feynman nel 1955 sospettava che non tutti fossero consapevoli di questi aspetti - come al solito controintuitivi - della conoscenza scientifica. Sessant’anni di rapporti sempre più intensi e spesso conflittuali tra scienza e società ci hanno insegnato che il suo sospetto era fondato e persino ottimistico: la maggioranza del pubblico continua a ritenere che la scienza debba fornire certezze assolute e, constatando che non lo fa, la giudica difettosa. La mancanza di certezza si traduce allora perversamente nella facoltà di dubitare di tutto. Ma se è vero che la scienza si nutre di disaccordi, è altrettanto vero che essa tende a raggiungere un consenso basato su una valutazione critica delle prove, perché l’unica autorità che ammette è «quella della conoscenza convalidata dalle conferme fattuali».
Lo scetticismo, che fa parte del bagaglio intellettuale dello scienziato, non va dunque confuso con la negazione dell’evidenza, e le teorie scientifiche non possono essere messe sullo stesso piano delle opinioni o delle credenze personali. La confusione al riguardo - abilmente sfruttata da quelli che gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway hanno chiamato in un loro libro (Merchants of Doubt, Bloomsbury Press, 2010) «mercanti del dubbio» - alimenta molte delle cosiddette «controversie scientifiche» di cui sentiamo parlare e che il più delle volte sono pseudocontroversie, dispute fittizie che contrappongono conoscenze e saperi consolidati a punti di vista minoritari, o addirittura isolati, di soggetti portatori di precisi interessi. Si pensi al confronto di qualche anno fa tra creazionisti ed evoluzionisti, alle ricorrenti polemiche sugli OGM e sul cambiamento climatico, o, per stare alla stretta attualità, alla questione del presunto legame tra vaccini e autismo, su cui personaggi incompetenti e litigiosi sono messi di fronte a esperti veri per pura convenienza giornalistica (le provocazioni, come è noto, fanno più audience dei ragionamenti pacati).
Giustamente Villa sottolinea che l’alfabetizzazione scientifica, da molti invocata, non deve essere intesa come l’acquisizione di conoscenze approfondite in merito a tutte le questioni scientifiche - e sono tante - su cui, da semplici cittadini, siamo sempre più spesso chiamati a formarci un’opinione e a pronunciarci.
Ciò che davvero conta è comprendere che «lo sviluppo della scienza ha al suo centro una cultura dell’evidenza e della fiducia critica, codificata nel controllo reciproco tra i membri della comunità scientifica». Solo questa consapevolezza può fornire alla società gli anticorpi per combattere non soltanto le persistenti forme di oscurantismo antiscientifico, ma anche le retoriche di chi usa una scienza dimezzata e distorta per propagandare ideologie.